Le mafie possono stare tranquille. Poco fa ho sentito ad “Unomattina” la presentazione dell’ultimo volume di Pietro Grasso dal titolo “Paolo Borsellino parla ai bambini”, con la prefazione di Pif, edito da Feltrinelli. Il servizio si è concluso con la lettura di un passo del libro in cui si chiamano in causa le giovani generazioni che devono essere cresciute con il concetto del merito mentre le mafie alimentano il disagio sociale.
A prima vista sono concetti fondamentali, ineludibili. Ma andando al di là dei luoghi comuni si constata che la situazione è esattamente l’opposta. Sono, infatti, le mafie che, nella loro perversa logica criminale, premiano il merito, a differenza delle democrazie: basti analizzare le modalità con cui vengono individuate le classi dirigenti. La recente relazione della Dia lo scrive esplicitamente, riferendosi in modo elegante solo al ceto burocratico.
Insieme e a volte più delle mafie, il disagio sociale viene invece alimentato dall’inadeguatezza delle politiche pubbliche, dalla superficialità con cui vengono affrontati i problemi, dalla spettacolarizzazione della vita pubblica con un sistema mediatico che non è privo di responsabilità. E merito delle classi dirigenti e disagio sociale sono temi strettamente collegati. Per non parlare del richiamo ai giovani che frequentano scuole e università dove non raramente il merito è una variabile indipendente dagli esiti formativi, con la formazione di professioni destinate in buona parte alla disoccupazione e competenze alfabetiche costantemente in discesa.
Secondo me, sono questi aspetti che alimentano il disagio sociale più che le mafie che ne sono in buona parte il prodotto. Così come è l’assenza di merito con il quale si individuano i dirigenti pubblici che rende le mafie sempre più infiltrate nella società.
Pertanto se continuiamo a confondere le cause con gli effetti, le mafie possono stare tranquille. E purtroppo anche Paolo Borsellino sarà morto invano.