Se vi chiedessero quale dei due candidati alla Casa Bianca ha, tra le sue proposte elettorali, un piano chiamato “made in all of America” che prevede il rafforzamento delle leggi note come Buy American, con l’intento di rendere gli Stati Uniti meno dipendenti dalla Cina per quanto riguarda la produzione di beni di primaria necessità, quale sarebbe la vostra risposta? Molto probabilmente il repubblicano Donald Trump. E vi sbagliereste.
Ieri, infatti, il candidato democratico Joe Biden — mentre il cerchio si stringe nella ricerca del suo candidato vice: donna, afroamericana, tutti gli indizi portano a sospettare dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama, Susan Rice — ha presentato il suo piano per rilanciare e rafforzare l’industria manifatturiera e le imprese tecnologiche statunitensi. L’iniziativa punta a riparare i danni economici creati dal coronavirus e vale 700 miliardi di dollari: 400 di fondi federali per l’acquisto di prodotti americani e 300 in ricerca e sviluppo nelle società tecnologiche.
DOPPIA SFIDA: A TRUMP E A PECHINO
L’ex vicepresidente sembra voler affermare che, anche se il presidente uscente Trump non dovesse vincere a novembre, gli Stati Uniti non tornerebbero più alle politiche tipiche della globalizzazione. A tal punto che persino lui è incline a rivedere le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio.
I messaggi del piano sono due. Uno interno, l’altro esterno. Il primo: Biden vuole riconquistare i voti operati nella Rust Belt che quattro anni fa furono decisivi per la vittoria di Trump sulla candidata democratica Hillary Clinton. Il secondo: la Cina è una minaccia.
This is our moment to imagine and build a new American economy — one where everyone gets a fair return for their work and an equal chance to get ahead. pic.twitter.com/BPUISe4Fd6
— Joe Biden (@JoeBiden) July 9, 2020
Nel documento pubblicato sul sito JoeBiden.com la parola “China” compare ben 24 volte, quella “Chinese” quattro. Di particolare interesse il sesto punto del piano (“riportare le catene di approvvigionamento dei beni di prima necessità in America, in modo da non dipendere dalla Cina o da qualsiasi altro Paese per la produzione di beni critici in caso di crisi), il focus sui falsi (“Biden darà un giro di vite sule aziende che etichettano i prodotti come Made in America anche se provengono dalla Cina o da altrove) e la preoccupazione per i massicci investimenti di Pechino in ricerca e sviluppo.
ANCHE I DEM TEMONO LA CINA
Come abbiamo raccontato a più riprese su Formiche.net, infatti, a Washington è ormai convinzione bipartisan che il Dragone rappresenti un pericolo per l’ordine internazionale liberale. Se quattro anni fa, mentre il Partito repubblicano (su impulso di Steve Bannon, l’ex stratega di Trump) già vedeva Pechino come l’avversario degli Stati Uniti nei prossimi decenni, il Partito democratico sembrava più interessato alla Russia (scottato dal Russiagate), oggi le cose sono cambiate.
Addirittura, secondo il professor Carlo Pelanda, Biden rappresenterebbe un osso più duro di Trump per la Cina. Intervistato nei giorni scorsi da Formiche.net, il docente di Geopolitica economica all’Università Guglielmo Marconi ed esperto di studi strategici spiegava: “L’idea del Partito democratico, molto più carico di ideologia democratizzante rispetto a quello repubblicano, nei confronti della Cina è di cambiare regime. Il presidente Donald Trump, invece, non vuole rischiare la guerra e usa la dissuasione, cioè la minaccia, per ottenere un accordo. Con Biden presidente e un Congresso democratico ci sarebbe una presa di posizione ideologica: la Cina è la nuova Germania nazista e dobbiamo combatterla”.
IL RUOLO DELLA RUSSIA
Non significa, secondo Pelanda, che ci sia una guerra alle porte: “Significa una nemicizzazione molto forte, per esempio rendendo più evidenti le relazioni con Taiwan chiamandola la vera Cina o sostenendo la resistenza interna che si sta formando ormai da un paio d’anni. Lo scenario preferito per chi è interessato ad accendere un’attenzione maggiore contro la Cina è quello con il Partito democratico alla Casa Bianca e al Congresso. Però c’è un problema”, spiegava il professore.
Quale problema? “In tema di grande strategia, Trump e i suoi collaboratori hanno capito che bisogna in qualche modo includere la Russia al fine di circondare la Cina e condizionarla. Il Partito democratico ha però una russofobia profonda. E lasciando fuori la Russia, la Cina è salva”.