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Due tribunali per Trump. Ecco le sentenze che scuotono la campagna

Una sconfitta giudiziaria e una vittoria politica: Donald Trump dovrà prima o poi rendere pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi –è l’unico presidente a non averlo fatto dai tempi di Richard Nixon-, ma ciò non avverrà probabilmente prima delle elezioni presidenziali del 3 novembre.

Sono sentenze che si prestano a interpretazioni diverse quelle della Corte Suprema, che, d’acchito, costituiscono una bruciante sconfitta sul fronte legale e una temporanea vittoria sul quello politico nella battaglia del magnate presidente contro la diffusione della sua documentazione fiscale.

Trump denuncia di essere vittima di una “persecuzione”, di una “caccia alle streghe” – espressione che gli piace: la usava pure per il Russiagate e il Kievgate –. La portavoce della Casa Bianca Kayleigh McEnany sostiene che, “se si leggono le motivazioni, le sentenze della Corte Suprema sono una vittoria per la presidenza”. E la McEnany aggiunge il consueto ritornello su questo tema: “Trump non ha nulla da nascondere, le sue dichiarazioni dei redditi sono ancora oggetto di verifiche e le renderà note quando saranno a controlli finiti”.

Con una sentenza, la Corte Suprema ha stabilito che i documenti finanziari del magnate, comprese le dichiarazioni dei redditi, possono essere esaminati dal procuratore di New York Cyrus Vance, democratico, nell’indagine sui pagamenti in nero a due donne per comprarne il silenzio su tresche con Trump: l’ex pornostar Stephanie Clifford, alias Stormy Daniels, e l’ex coniglietta di Playboy Karen McDougal. Per quei pagamenti, è già stato condannato ed è finito in carcere Michael Cohen, l’ex avvocato personale del presidente.

Con un’altra sentenza, la Corte Suprema ha stabilito che due commissioni della Camera, controllata dai democratici, non possono, almeno per ora, ottenere la documentazione fiscale e finanziaria chiesta ai contabili del magnate e a due banche che gli fecero prestiti, nel quadro di inchieste su possibili conflitti di interesse, presunte evasioni fiscali e i pagamenti alle due donne.

In entrambi i casi, i giudici si sono pronunciati 7 a 2. E, in entrambi i casi, i due nominati da Trump hanno votato con la maggioranza, dando ancora una volta prova d’indipendenza della magistratura. Ma, in entrambi i casi, la Corte Suprema ha rimandato le cause ai tribunali inferiori, dove la difesa del presidente potrà sollevare nuove obiezioni e allungare i tempi. Né c’è garanzia che il gran giurì, che opera in grande segretezza, renda noti i documenti, se e quando li otterrà.

Gli sviluppi giudiziari sulle dichiarazioni dei redditi del magnate hanno relegato in secondo piano l’annuncio di un piano del candidato democratico alla Casa Bianca Joe Biden, per rilanciare e rafforzare l’industria manifatturiera e le imprese tecnologiche degli Stati Uniti. Il piano, chiamato non originalmente ‘Buy American’, punta ad lenire i danni economici causati dal coronavirus e vale 700 miliardi di dollari di fondi federali: 400 per acquistare prodotti ‘made in Usa’; e 300 per ricerca e sviluppo alle società tecnologiche.

Fronte ‘guerra delle scuole’ pro e contro la riapertura a settembre, l’azione legale avviata da MIT e Harvard sulla decisione dell’Amministrazione Trump di non rinnovare i visti agli studenti stranieri, se i loro corsi universitari saranno online, trova centinaia di adesioni. Pure lo Stato della California fa causa. Ed i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie non modificano le linee-guida sul ritorno a scuola di bambini e ragazzi in autunno, nonostante le pressioni della Casa Bianca.

Fronte coronavirus, ieri i contagi in un solo giorno hanno stabilito un nuovo record: sono stati oltre 65 mila. Secondo i dati della Johns Hopkins University, alla mezzanotte sulla East Coast, il totale dei contagi sfiorava i 3.118.00 e quello dei decessi i 133.300.

Tornando alle decisioni della Corte Suprema, i giudici, richiamando un principio stabilito 200 anni or sono, hanno ribadito che “nessun cittadino, neppure il presidente, è categoricamente al di sopra del comune dovere di presentare prove quando richiesto in un procedimento penale”. Il presidente, cioè, non gode di un’immunità assoluta, come sostenevano i suoi avvocati: il suo potere esecutivo ha dei limiti, quelli della legge.

Sono decisioni che seguono quelle che costrinsero Richard Nixon a consegnare le registrazioni fatte nello Studio Ovale nell’indagine sul Watergate e Bill Clinton a fornire prove nello scandalo sessuale che coinvolse la stagista Monica Lewinsky. Il procuratore Vance ha rilevato: “E’ un’enorme vittoria per il sistema giudiziario del nostro Paese e per il suo principio fondante che nessuno è al di sopra della legge, neppure il presidente. La nostra indagine, ritardata per quasi un anno da questa causa, riprenderà, guidata come sempre dal solenne obbligo del gran giurì di seguire la legge e i fatti, ovunque portino”. Quanto alle richieste della Camera, la difesa di Trump afferma che il Congresso non ha autorità per chiedere le carte in questione perché non servono ad attività legislative.



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