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La Russia di nuovo nel G8? Berlino dice no. L’analisi di Dottori

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Ha destato una certa sensazione l’intervista con la quale ministro degli Esteri tedesco, Heikko Maas, ha sbarrato la strada alla proposta americana di riaprire le porte del G7 alla Russia, contestualmente includendovi Australia, Corea del Sud ed India.

Le chiavi di lettura della sortita sono molteplici, ma il dato più importante e imbarazzante per noi è la netta contrapposizione di visioni che ha delineato nei rapporti tra Berlino e Washington. La divergenza è evidente soprattutto nell’articolazione delle relazioni che l’Occidente dovrebbe sviluppare con Mosca e con Pechino.

Gli elementi di discordanza sono fondamentalmente due. Innanzitutto, Maas ha espresso l’avversione della diplomazia tedesca nei confronti di qualsiasi forma di riconciliazione con la Federazione Russa che prescinda dalla soluzione del nodo ucraino.

La circostanza non è sorprendente, se si tengono presenti il ruolo avuto dalla Germania nell’offerta a Kiev dell’Accordo di Associazione all’Ue e soprattutto il sostegno accordato dal governo di Berlino al compromesso che avrebbe dovuto portare ai vertici dell’Ucraina Vitali Klitschko, già riferimento locale della Fondazione Konrad Adenauer.

Secondo Maas, sarebbe in realtà proprio la Russia ad avere nelle proprie mani le chiavi che le permetterebbero di rientrare nel G7. Se Mosca restituisse la Crimea e cessasse di sostenere i separatisti del Donbass, sarebbe possibile ricucire rapidamente la ferita.

Posto in questi termini, l’approccio di Maas equivale a una chiusura completa, di carattere strutturale e non congiunturale, nei confronti del Cremlino, che considera irreversibile il ritorno della penisola contesa sotto la propria sovranità ed usa il conflitto in atto nell’Ucraina orientale per bloccare il processo di adesione di Kiev all’Ue ed alla Nato.

Quel contenzioso è in effetti l’unico strumento di cui Mosca disponga per garantirsi rispetto a questa possibilità, che dal punto di vista russo renderebbe più concreto il pericolo di un’invasione da Ovest.

Non lo dicono gli strateghi russi, lo ha invece messo nero su bianco George Friedman, uno dei più influenti esperti di geopolitica e strategia attivi negli Stati Uniti: se l’Alleanza Atlantica si attestasse sul confine russo-ucraino, i generali di Vladimir Putin dovrebbero preoccuparsi di come proteggere la loro capitale dalla possibilità che un giorno qualcuno l’approcci da una direttrice d’attacco sulla quale non esistono ostacoli naturali.

A noi sembrano preoccupazioni ingiustificate — e di certo lo sono, considerato il profondo radicamento dell’amore per la pace tra gli europei — ma i russi hanno una memoria storica di lungo periodo sulla quale pesa ancora moltissimo il ricordo non solo di quanto accadde nel 1941, ma persino di ciò che successe nel 1812

Maas esige una vittoria politica completa sulla Russia, mentre a Donald Trump interessa cooptarla in uno schema globale di contenimento dell’espansione cinese, di cui è un tratto essenziale il proposito di inserire un cuneo nelle “vie della seta”, precludendo a Pechino la possibilità di integrare sotto la propria leadership un blocco eurasiatico che giungerebbe fino a Berlino.

E qui viene il secondo punto di attrito con gli Stati Uniti che il ministro degli Esteri tedesco ha illuminato con le proprie affermazioni: la Germania rifiuta la prospettiva di una polarizzazione anticinese della politica di sicurezza occidentale. E conseguentemente si oppone alla trasformazione del G7 in un foro apertamente ostile a Pechino, quale diventerebbe di sicuro se vi entrassero australiani, sudcoreani ed indiani, oltre ai russi, che peraltro esitano a loro volta ad accettarla.

Esistono ragioni profonde alla radice di questa posizione: la Repubblica popolare cinese è il primo partner commerciale della Germania, che oltretutto ha delocalizzato nell’ex Celeste impero anche parte significativa delle proprie produzioni. Milioni di auto vendute con marchi tedeschi sono infatti prodotte in Cina.

Questa realtà preoccupa Trump e contribuisce a spiegarne l’irritazione che ogni tanto trapela nei confronti di Berlino. Sarebbe tuttavia puerile ritenere che le divergenze esistenti tra il presidente americano e la cancelliera Angela Merkel possano essere risolte da un eventuale cambio d’inquilino alla Casa Bianca.

La forza della Germania e la sua crescente capacità di difendere interessi ed orientamenti divergenti rispetto a quelli degli Stati Uniti sono state un problema anche per Barack Obama, che dovette farci i conti sia sul piano economico, quando chiedeva all’Ue politiche espansive per superare la crisi esplosa nel 2008, che su quello geopolitico: Victoria Nuland disse parole memorabili in occasione di Euromajdan.

Non c’è motivo di ritenere che tutte le difficoltà sarebbero appianate con Joe Biden presidente.

Ancora una volta, in effetti, si tratta di interpretare lo spirito dei tempi. Come ha spiegato Fiona Hill proprio a Formiche.net, alcune realtà del XX secolo sono tramontate. Le ambizioni globali della Cina e quelle europee della Germania riunificata generano apprensioni a Washington che qui da noi si fatica a comprendere. Purtroppo, Maas non ha contribuito a mitigarle.



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