Alta tensione tra Stati Uniti e Cina su Hong Kong, che rappresenta solo l’ultimo capitolo di una saga che per molti è la Guerra fredda del Ventunesimo secolo. Dello scontro tra le due superpotenze e del ruolo dell’Europa Formiche.net ha parlato con Carlo Pelanda, docente di Geopolitica economica all’università Guglielmo Marconi. L’esperto di studi strategici racconta che gli Stati Uniti premono per un governo meno filocinese in Italia. E con Roma più vicina a Washington, anche il flirt tra Berlino e Pechino sarebbe destinato al fallimento.
Professor Pelanda, come giudica le difficoltà con cui il governo italiano ha affrontato la questione Hong Kong?
È evidente che come tanti altri governi, europei soprattutto, quello italiano non voglia offendere la Cina.
Per paura di una dura reazione economica da parte di Pechino o per i rapporti tra partiti e governo cinese?
È difficile distinguere le due cose. Ma a differenza della Germania, che sta tentando un’acrobazia geopolitica provando a mantenere l’accesso ad ambedue i mercati nonostante le due superpotenze siano in guerra, l’Italia è meno dipendente dall’export verso la Cina e per questo potrebbe tentare di avere una posizione più filoamericana.
Alla fine la prenderà secondo lei?
Dovrà prenderla. Il punto è che non abbiamo un centro di strategia che lavora in termini di analisi costi-benefici: non esiste un Consiglio di sicurezza nazionale o un think tank strategico che formuli idee e strategie di interesse nazionale oggettivo. Esiste un governo confuso, che ha una linea filoeuropea e filoatlantica ribadita dal Quirinale, ma che sulla Cina si tace.
Come mai?
È una posizione di politica interna: ci sono persone in Parlamento e al governo che sono state raggiunte da incentivi da parte della Cina, che è molto capace di esercitare influenza e dispone dei mezzi per poterlo fare in maniera incisiva. Ora però la Cina è destabilizzata e teme gravi danni non solo reputazionali ma teme anche di essere circondata: ormai il re è nudo, la Cina sa di essere tossica e che nessuno le crede più. Così deve mettersi la divisa del soldato: ha modificato la sua strategia di influenza rendendola più minacciosa. Basti pensare alla guerra economica mossa contro l’Australia che aveva osato dire che l’epidemia era dovuta anche ai silenzi cinesi sui primi casi: poi è arrivata al punto di dichiarare che forse sarebbe il caso di estendere la Nato al Pacifico.
Più minacciosa anche in Europa?
Pensiamo al caso di Volvo e all’idea di fusione con la cinese Geely (che è proprietaria del marchio svedese): sembra quasi che la Cina stia cercando di incassare le posizioni che ha sul piano industriale di influenza preparandosi a una situazione più bastone e meno carota. Vediamo una Cina più minacciosa in particolare verso chi, dopo aver incassato soldi, incentivi e supporti per la carriera politica, ora potrebbe giocare qualche piccolo scherzo, anche soltanto di parola.
È quello a cui assistiamo su Hong Kong?
In pochi parlano — a parte gli Stati Uniti — perché la Cina l’ha definita una linea rossa. I governi europei sono guidati dalla Germania e dalla sua strategia un po’ disperata visto quanto è connessa con la Cina. E stanno zitti.
Per quanto riguarda quello italiano?
Un po’ per questo, un po’ perché è molto influenzato dal lobbying cinese. Ed è il motivo per cui l’America sta premendo per cambiare governo. Con un governo meno filocinese in Italia si smonta anche il progetto un po’ dilettantesco della Germania di cercare un’equidistanza europea — non neutralismo — tra Stati Uniti e Cina.
Sulle pressioni di Washington su Roma torneremo tra qualche istante. Come mai “dilettantesco”?
È tipico del modo tedesco di pensare: è geniale sul piano della tattica ma mostra imbecillità sul piano della grande strategia. Alla fine la Germania non ce la farà e dovrà riavvicinarsi all’America, pur con una certa riluttanza. E questo avverrà soprattutto se l’Italia si schiererà già decisamente sul fronte atlantico considerato anche che la Francia non ha alcuna intenzione di seguire la Germania sull’equidistanza tra America e Cina.
Una vittoria alle presidenziali di novembre di Joe Biden potrebbe accelerare il riavvicinamento dell’Europa agli Stati Uniti?
Sicuramente una presidenza Biden, soprattutto se con uomini dell’amministrazione Obama in alcuni incarichi come il commercio estero, andrebbe a riprendere il trattato di libero scambio euroamericano anche se un po’ meno ambizioso di quello impostato da Obama dal 2013 al 2016. Certamente renderebbe più facili le relazioni tra Unione europea e Stati Uniti.
Anche con la Germania?
Non necessariamente: la Germania, come la Cina, ha stufato sia i democratici sia i repubblicani e non è considerata un partner affidabile.
Quali lo sono invece?
La Francia sicuramente. E l’Italia a certe condizioni.
Eccoci. Quali?
Che ci sia un governo diverso. La parte filocinese è molto influente e molto in alto nelle posizioni politiche italiane ma è molto piccola. E con un governo più filoatlantico in Italia, la Germania è kaputt.
E se ci fosse Biden presidente? Le pressioni statunitensi sull’Italia si farebbero più o meno forti?
Più forti visti i rapporti tra la sinistra americana e la sinistra non comunista italiana. E anche per l’Italia avere un presidente democratico renderebbe più facile una convergenza più forte.
Parla di “convergenza più forte”, non di riconvergenza. Come mai?
Perché nella sostanza delle cose l’Italia è più convergente della Germania. L’America non è preoccupata che l’Italia diverga dalla Nato bensì che non ci sia un governo serio che segua la realtà atlantica. E per questo sta facendo pressioni per cambiare.
Continuiamo a immaginare uno scenario con Biden alla Casa Bianca. Come cambierebbe la postura degli Stati Uniti verso la Cina?
L’idea del Partito democratico, molto più carico di ideologia democratizzante rispetto a quello repubblicano, nei confronti della Cina è di cambiare regime. Il presidente Donald Trump, invece, non vuole rischiare la guerra e usa la dissuasione, cioè la minaccia, per ottenere un accordo. Con Biden presidente e un Congresso democratico ci sarebbe una presa di posizione ideologica: la Cina è la nuova Germania nazista e dobbiamo combatterla.
Ci dobbiamo preparare a una guerra?
Ovviamente non significa che comincerà una guerra. Significa una nemicizzazione molto forte, per esempio rendendo più evidenti le relazioni con Taiwan chiamandola la vera Cina o sostenendo la resistenza interna che si sta formando ormai da un paio d’anni. Lo scenario preferito per chi è interessato ad accendere un’attenzione maggiore contro la Cina è quello con il Partito democratico alla Casa Bianca e al Congresso. Però c’è un problema.
Quale?
In tema di grande strategia, Trump e i suoi collaboratori hanno capito che bisogna in qualche modo includere la Russia al fine di circondare la Cina e condizionarla. Il Partito democratico ha però una russofobia profonda. E lasciando fuori la Russia, la Cina è salva.
E se sopraggiungesse il trattato economico euroamericano che evocava prima?
La Cina sarebbe finita. Si formerebbe nuovamente un polo di comando del pianeta fatto da Euroamerica, che ha la maggiore potenza economica, finanziaria e militare. E ormai la Cina ha rivelato la sua natura.
Con Trump sarebbe diverso?
No, perché pur con una situazione molto più difficile con Europa e Germania, c’è una ormai tendenza storica alla riconvergenza euroamericana di fronte a un nemico che si chiama Cina.
Parliamo, infine, della Via della Seta. Il Covid-19 avrà ripercussioni su questo progetto?
Il progetto della Via della Seta non esiste più.
In che senso?
I cinesi non hanno più i soldi per essere i principali investitori in quel tipo di infrastrutture a causa del disastro interno iniziato già nel 2019, prima del Covid-19: hanno un debito che raggiunge il 300 per cento e una grave crisi bancaria. Da una parte è un regime autoritario che può nascondere le cose e fare interventi che le democrazie non possono; dall’altra, però, i soldi sono i soldi. La Via della Seta era un progetto di risposta alla politica di Obama di fare due aree americocentriche, una nell’Atlantico e una nel Pacifico, che escludessero i cinesi. Quella strategia è stata superata e la Cina si sta difendendo non avendo più le risorse per attaccare. Quelle che rimangono le sta utilizzando più vicino a casa per evitare di farsi circondare.