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La nuova fase del lavoro agile nella PA

Con la conversione in legge del decreto-legge n. 34 del 2020 (“decreto rilancio”) e la pubblicazione, lo scorso 24 luglio, della Circolare n. 3/2020 a firma della Ministra Dadone, si apre una nuova fase del lavoro agile nel settore pubblico, archiviando la fase di emergenza acuta dovuta alla grave crisi epidemiologica da Covid-19. Se il decreto-legge n. 18 del 17 marzo (“decreto cura Italia”) aveva stabilito che, sino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica, il lavoro agile fosse la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa nella PA, il decreto rilancio (art. 263) ora richiede alle amministrazioni di adeguare la propria operatività alle esigenze dei cittadini e delle imprese connesse al graduale riavvio delle attività produttive e commerciali: a tal fine, fino al 31 dicembre 2020, i pubblici uffici organizzano il lavoro e l’erogazione dei servizi attraverso la flessibilità dell’orario, applicando il lavoro agile al 50 per cento del personale impiegato nelle attività che possono essere svolte in tale modalità. Cessa, inoltre, di avere effetto alla data del 15 settembre la disposizione per la quale veniva limitata la presenza del personale per assicurare esclusivamente le attività indifferibili e che richiedessero necessariamente la presenza sul luogo di lavoro, ponendo ufficialmente termine a quello che è stato definito smart working d’emergenza.

Per i restanti mesi dell’anno, dunque, un dipendente su due torna stabilmente in ufficio, attraverso un mix di flessibilità dell’orario e di lavoro agile e adeguandosi alle vigenti prescrizioni in materia di tutela della salute, posto che il termine dello stato di emergenza resta al momento fissato al prossimo 31 luglio. Le amministrazioni devono dunque prevedere il rientro in servizio anche del personale sinora non adibito a funzioni indifferibili ed urgenti, con l’obbligo di aggiornare la mappatura delle attività che, in base alla dimensione organizzativa e funzionale di ciascun ente, possano essere svolte in modalità agile, e ferma restando la possibilità di utilizzare strumenti informatici propri. Il tema della sicurezza e della salute dei dipendenti, resta fondamentale: deve darsi corso ad un processo di analisi e di individuazione di misure di gestione del rischio anche alla luce del Protocollo quadro per la prevenzione e la sicurezza dei dipendenti pubblici in ordine all’emergenza sanitaria, validato dal Comitato tecnico-scientifico e sottoscritto con le organizzazioni sindacali.

In questo nuovo quadro, si pongono obbligatoriamente alcune questioni che investono l’idea stessa di lavoro agile e che interessano l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro pubblico. Quale sarà, ad esempio, il quantum del tempo che potrà essere dedicato, in questa fase di transizione, al lavoro agile? Pesa, infatti, il rischio di un’inconfessabile voglia di scrivania di quella parte della dirigenza che ha, da sempre, mal tollerato lo smart working, vittima della trappola cognitiva che porta a credere di dover avere a che fare con ulteriori adempimenti per trovare i compiti da affidare al collaboratore che non lavori in sede, e complice, per certuni, la difficoltà di aggiornare schemi organizzativi e culturali tayloristici ormai desueti e sostanzialmente non dissimili da quelli in voga nel XIX secolo. In altre parole, pur con la necessaria cautela che i dati epidemiologici consigliano e ferma l’opportunità che la distribuzione del personale assicuri un adeguato distanziamento interpersonale, non può essere la mera preoccupazione sanitaria a guidare la riorganizzazione sostanziale del lavoro negli uffici pubblici.

Diciamolo chiaramente: in assenza dei drammatici effetti della crisi sanitaria dei mesi scorsi, il lavoro agile sarebbe rimasto a galleggiare in una sempiterna fase sperimentale, limitandosi ad una giornata a settimana per il 10% dei dipendenti, misconosciuto nelle sue effettive potenzialità e vissuto come l’ennesima, fastidiosa gestione di carte. Occorre, invece, avere la capacità di slegare lo smart working dalla situazione contingente ed immaginare un’applicazione integrata allo scopo di modernizzare – rivoluzionare – la cultura amministrativa del Paese. Se le evidenze empiriche hanno mostrato che c’è stata una generale soddisfazione da parte dei dipendenti e che l’applicazione strategica del lavoro agile comporta un incremento della produttività dell’organizzazione, è necessario domandarsi se sia davvero importante fissare delle soglie percentuali di accesso. A tal proposito, il decreto rilancio prevede che entro il 31 gennaio di ogni anno si rediga il Piano organizzativo del lavoro agile (POLA), quale sezione del Piano della Performance, disponendo, per le pertinenti attività, che almeno il 60% dei dipendenti possa avvalersene e definendo le misure organizzative e formative, i requisiti tecnologici e gli strumenti di rilevazione e di verifica periodica dei risultati conseguiti. Sebbene l’ampiezza della percentuale a regime appaia certamente confortante, il rischio è che si tenda ad irregimentare un istituto che, per sua natura, abbisogna di un alto grado di elasticità, a seconda delle esigenze proprie della singola struttura, del singolo dipartimento, del singolo ufficio.

Non si vuole sostenere, naturalmente, che le PA debbano, da un giorno all’altro, dare il “liberi tutti” e non prevedere una cornice adeguata. La gradualità perseguita dalle recenti nome è, da questo punto di vista, apprezzabile: la percezione di essere sempre connessi e il possibile senso di isolamento dall’organizzazione di appartenenza sono esternalità che, nel quadro emergenziale, sono emerse con grande chiarezza, come è risultato evidente, in un recente studio promosso dal CNR, il rischio di limitazione di autonomia per le donne. Tuttavia, se è necessario far tesoro dell’esperienza emergenziale, è fondamentale che la leva principale sia quella organizzativa e culturale, indispensabile per scardinare l’approccio formalistico e adempimentale che ancor oggi è ancor troppo presente nella conduzione delle attività delle pubbliche amministrazioni. La maggiore responsabilizzazione dei dipendenti, l’emersione di un più marcato orientamento al risultato, lo sconvolgimento di quadri procedurali sino ad oggi apparentemente immodificabili segnano la strada da perseguire per cambiare nel profondo la mostra macchina pubblica.

Come ha acutamente osservato Guido Melis, non va temuta l’anarchia al potere: non si sopprimerebbe il centro di direzione lasciando il lavoro amministrativo senza testa, ma quel centro continuerebbe ad agire non tanto in termini gerarchico-burocratici ma come una sorta di motore centrale, una stazione di coordinamento collegata a una pluralità di stazioni decentrate. Non verrà dunque decretata, con tutta probabilità, la morte dell’ufficio, come titola un recente articolo de “L’Economist”, ma, ove ci si soffermi a ricordare che non più di un anno fa il dibattito era dominato dal tema delle impronte digitali per gli accessi, è facile apprezzare la vera e propria rivoluzione copernicana che in materia di PA potrebbe spiegare effetti dirompenti. Alzando lo sguardo, non è però difficile cogliere una malcelata sfiducia nei confronti della prospettiva di sfaldamento del dogma del lavoro in presenza, nel settore pubblico come in quello privato, per molti versi decisamente più avanzato. Come l’esortazione a tornare al lavoro del Sindaco di Milano Beppe Sala ha dimostrato, entrano in gioco due elementi: a) le implicazioni della possibile riorganizzazione della vita delle nostre città, incentrate sul pendolarismo casa-lavoro e su rilevanti interessi immobiliari e della ristorazione, settori a vario titolo colpiti dalla subitanea assenza dei lavoratori, pubblici e privati, a seguito dell’emergenza; e b) la messa in discussione della comfort zone di prassi e comportamenti ritenuti immodificabili e la correlata incertezza legata a un futuro inatteso le cui conseguenze non sono, al momento, valutabili con precisione.

Al di là di tutte le necessarie ed opportune considerazioni legate all’efficientamento del nostro sistema burocratico ed amministrativo, emerge infatti, di tutta evidenza, il timore dell’ignoto, del salto nel buio che comporterebbe ripensare in profondità il nostro quotidiano e, conseguentemente, il significato ultimo delle nostre azioni, dei nostri bisogni, delle nostre aspirazioni: è una prospettiva che, comprensibilmente, atterrisce coloro che non hanno interesse alcuno al cambiamento sociale. Non è un caso, in un simile contesto, che ritorni virale un intervento di Sergio Marchionne tenuto nel 2013 all’Università Bocconi di Milano in cui si stupiva del fatto che in Fiat ad agosto si fosse, inspiegabilmente, in ferie, in un momento di perdite per l’azienda. In termini profondamente diversi, l’allora Presidente dell’Uruguay José Mujica, nel suo memorabile discorso alla Conferenza ONU sullo sviluppo sostenibile del 2012, ricordava come lo sviluppo non possa essere contro la felicità umana ma a favore dell’amore della terra, delle relazioni umane, della cura per i figli, delle amicizie, della necessità di avere l’indispensabile. E, sostenendo che non si viene al mondo soltanto per svilupparci ma per cercare di essere felici (“Perché la vita è corta e se ne va”), poneva a tutti una domanda: “È questo il destino della vita umana?”. Ecco, al pari di Mujica, è forse arrivato il momento di porsi domande alte. Destabilizzanti, forse: ma necessarie. Esercitando senza pregiudizi la nobile arte del dubbio.

 


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