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Riformisti sì, populisti mai. L’alleanza rossogialla vista da Borghi (Pd)

Di Enrico Borghi
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Per affrontare e governare la rottura dell’ordine sociale indotto dal Covid-19, che per dirla con Giddens ha messo in discussione la “sicurezza ontologica” dell’uomo contemporaneo, serve orecchio a terra, capacità di analisi e senso di prospettiva. I giochi di palazzo, le liturgie barocche del partitismo o le alchimie di chi immagina di costruire in laboratorio l’uomo nuovo non ci sono utili, anzi rischiano di produrre contraccolpi letali per la stessa democrazia.

Su un’Italia che ancora faceva i conti con le conseguenze della gravissima crisi finanziaria del 2008 che ha prodotto diseguaglianze, inclusioni ed esclusioni e la fine della belle epoque della globalizzazione, si è abbattuta la pandemia. Che funge al tempo stesso da acceleratore dei processi, e da potenziale detonatore dei problemi. Non abbiamo più molto tempo, e a tempi straordinari servono idee, metodi, personalità straordinarie. Noi, invece, corriamo il rischio del governismo, di un tardo-andreottismo, del galleggiamento in vista dell’obiettivo “Quirinale 2022”. Senza un pensiero, una elaborazione di una politica che dia un nuovo equilibrio all’economia, non se ne viene a capo. E non sarà il politicismo a salvarci.

Con il Movimento 5 Stelle condividiamo la lettura della crisi del modello neoliberista, e sull’esigenza di riappropriarsi della dimensione dei beni comuni. Investire in scuola, nella sanità, nell’ambiente, nelle infrastrutture materiali ed immateriali deve uscire dalla logica del costo e del rendimento, per diventare modernizzazione di un Paese più giusto nel quale si colmano i divari sociali e territoriali. Il modello della destra populista in proposito è fallimentare, perché produce chiusura, paura, maggiore povertà e la dilatazione delle ingiustizie sociali. Il punto politico è: la ricostruzione dell’ordine socio-economico, la riqualificazione di interi settori produttivi, la ricostruzione di una relazione tra finanza, economia e comunità, su quale ordine politico si poggia?

Noi non dobbiamo arrenderci all’idea che il populismo sia il tratto distintivo della società contemporanea. L’Italia di oggi non è l’Argentina di Peron, dove si poteva essere al massimo populisti di destra o di sinistra. E dove il problema della povertà si pensava di risolverlo a colpi di debito pubblico. E non possiamo immaginare il futuro del nostro Paese oscillante tra un neo populismo di destra imperniato sulla diarchia Meloni-Salvini cui contrapporre una sorta di “nouvelle gauche plurielle” come figlia di una fusione a freddo in laboratorio di M5S, Pd e Leu.

In realtà, il Recovery Fund, se ne accorgeranno presto sia quelli che oggi lo festeggiano come il nuovo Bengodi, sia quelli che lo esecrano come un novello Leviatano, sarà la pietra tombale del populismo, perché ora non abbiamo più scuse: dobbiamo modernizzare il Paese. E per farlo serve il riformismo, non il populismo.Cose concrete e innovatrici, non chiacchiere di una grande rivoluzione che non arriva mai. Ecco il grande, straordinario spazio del Pd.

Un Pd che abdicasse alla sua vocazione maggioritaria (da non confondersi col modello elettorale, la stessa Dc espresse per 50 anni una vocazione maggioritaria in un sistema proporzionale puro) per rincorrere la fusione fredda con alcuni degli attuali alleati, immaginando Conte mallevadore, semplicemente tradirebbe la propria identità e la propria natura. Peraltro, un disegno simile aprirebbe strade e praterie alla destra facendo perdere una capacità di attrazione del nuovo, ipotetico soggetto, nei confronti di ceti produttivi, partite Iva (che sono in molti casi il proletariato 4.0) e autonomi.

Un Pd rigorosamente riformista, in grado di imporre l’agenda delle riforme, ora attuabili con il Recovery Fund, Sure e Mes, e di esprimere una leadership coerente, tornerebbe in fretta ad essere il primo partito e a superare il 30%. E al quel punto, dentro uno schema di alleanza su un programma e senza pretendere abiure o confluenze, potrebbe tranquillamente essere quello per cui è nato: la sintesi dei riformismi italiani, che non nasconde di voler guidare il governo per realizzare un programma di riforme per un’Italia più moderna e più giusta.

Sui territori, dove si è fatto così (penso a Bonaccini in Emilia, a De Luca in Campania, a Sala a Milano) il modello ha funzionato. Non siamo noi a dover rincorrere gli altri. Noi dobbiamo mettere in campo una capacità di azione politica fondata su un’analisi precisa della società. Senza abdicare al ruolo che ci compete e senza pretendere da altri lo snaturamento delle loro identità. In questo, il sistema proporzionale aiuta.

La modernizzazione del Paese, il superamento delle ataviche tare italiane può avvenire solo in un quadro riformista, con la fatica del sentiero stretto, del cambiamento costante e concreto, senza conservatorismi né rivoluzioni di salotto che lasciano tutto intatto. La sintesi dei riformismi compiuti con la nascita del Pd oggi si può saldare a nuovi fenomeni emergenti dalla società, se essi vengono trattati con rispetto e non come nuove mosche cocchiere, in un quadro da un lato di autonomia e dall’altra di capacità coalizionale. Il mondo che verrà sarà più giusto, e la lezione della pandemia sarà stata appresa, se sapremo fare tesoro di questo.

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