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Russia, il giorno del plebiscito. Savino spiega cosa (non) cambia per Putin

Di Giovanni Savino

Nel leggere i primi lanci e le analisi di testate anche prestigiose della stampa italiana, sembrerebbe di veder finalmente stabilita in Russia una nuova autocrazia. Interessante notare come però vi è una contraddizione, visto che Putin da sempre viene definito, con semplificazioni giornalistiche, lo “zar”.

In questo vi è una certa sintonia inconscia della stampa italiana con le intemerate di Vladimir Zhirinovsky, lo storico leader ultranazionalista che aveva proposto di cambiare il titolo da presidente a zar. La realtà è più complessa di una restaurazione autocratica o di una categoria anch’essa popolare tra alcuni osservatori dell’ultima ora, il cosiddetto “neosovietismo”.

Il risultato raggiunto dalla votazione sulle modifiche costituzionali è stato ottenuto attraverso alcuni accorgimenti particolari. L’estensione delle operazioni di voto, svoltesi dal 25 giugno al primo luglio, l’introduzione del voto online e il ricorso alle urne sui posti di lavoro e a domicilio, oltre a una certa mobilitazione estesa questa volta anche a corporation di peso hanno giocato un ruolo importante nella partecipazione e nel raggiungimento dell’obiettivo prefissato del 65% d’affluenza (64,99%).

Inoltre, il continuo aggiornamento sui risultati a urne aperte, elemento inedito nella storia elettorale russa, ha avuto un peso nel creare un’atmosfera favorevole alla presenza dei votanti. Il più strano degli appuntamenti elettorali nella storia della Federazione Russa però non è stato solo un plebiscito pro o contro Putin, ma ha una valenza importante per gli sviluppi futuri e le evoluzioni nella società e nel paese reale.

A prima vista, non sembrerebbe esserci molto da discutere: il 77,92% ha votato a favore, contro il 21,27%. Su cosa si votava? Per il lettore italiano vi è il rischio di non avere molto chiaro il quadro delle riforme proposte e anche se vi fossero altre misure, oltre all’azzeramento dei mandati. Questo perché il fattore P è stato al centro della discussione, anche per volontà dello stesso Cremlino, e ancora una volta dimostrando come il marketing politico del potere russo riesca ad essere efficiente grazie alla grancassa dei media occidentali.

Poco però si è discusso di alcuni aspetti fondamentali, in grado di aver effetti di medio-lungo termine sul futuro di Mosca. Nelle modifiche proposte all’art. 67, della costituzione vi è spazio per affermare la Federazione Russa come legale successore dell’Urss (comma 1), l’unità millenaria del paese in un unico stato per volontà di dio (comma 2) e la difesa della verità storica assieme alla devozione per il sacrificio dei difensori della patria (comma 3).

Al punto b del comma 2 possibili appelli alla secessione di parti dello Stato sono dichiarati come irricevibili. Il comma 4 assicura la difesa della famiglia tradizionale, mentre nell’articolo successivo, il 68, si dichiara il russo come lingua del popolo “fondatore dello stato” (gosudarstvoobrazuyushchij) al comma 1, assicurando però ai popoli autoctoni della Russia il diritto all’uso delle proprie lingue nelle repubbliche nazionali (comma 2) e la difesa dei propri diritti culturali e linguistici (commi 3 e 4).

La Russia è un Paese multietnico, e, per usare un’espressione contenuta nelle modifiche, la sua storia millenaria testimonia l’aspetto fondamentale di essere casa di una comunità di popoli uniti in un unico Stato. Questa unità ha conosciuto momenti di crisi acuta, ha visto territori e regioni un tempo parte dell’impero zarista dividersi dal centro russo, per poi ritornare in forma molto diversa e con una propria identità nazionale e statuale all’interno dell’Urss.

Quando qualche osservatore parla di “neosovietismo”, probabilmente non è al corrente di un importante dato: nelle costituzioni sovietiche vi era il diritto di secessione per le repubbliche aderenti. La scomparsa dell’Urss è avvenuta anche basandosi su questa possibilità, stabilita già nell’atto costitutivo del 1924 (capitolo II, punto quarto) ripreso nella costituzione staliniana del 1936 dall’articolo 17, e poi riaffermato più di quarant’anni dopo dalla nuova carta adottata nel 1977 in epoca brezneviana con l’articolo 72.

Nel caso dell’odierna Federazione Russa, nonostante il carattere federale del Paese, non vi è possibilità di uscita per le repubbliche nazionali. La formula sulla lingua del popolo “fondatore dello stato” prova ad alludere non tanto a volontà russificatrici o di omogeneità nazionale, ma a un ruolo di primus inter pares riservato ai russi, senza dichiararlo esplicitamente, e comunque riaffermando il carattere multinazionale del paese.

Una soluzione che, nella sua poca chiarezza, però è in grado di non scontentare nessuno ma nasconde insidie, come notato anche da osservatori attenti al tema. La sensibilità del tema è dimostrata anche dall’unica regione dove i no hanno vinto con il 58,36%, il Circondario autonomo dei Nenets, situato in gran parte al di là del Circolo polare artico. Nonostante la regione sia la meno popolata della Russia, negli ultimi mesi è stata al centro dell’attenzione a causa della proposta di unire il Circondario alla vicina regione di Arcangelo.

La nazione “titolare”, i nenets, non è maggioritaria, rappresenta il 17,83% della popolazione, ma la liquidazione dell’autonomia è stata fermata a causa della grande mobilitazione delle comunità locali, restie a dividere le ricchezze della regione e a trovarsi inglobati in un’unità amministrativa più grande e popolosa.

Altra importante modifica, di cui brevemente si era discusso anche sui media globali (e ne avevamo scritto qui), è l’introduzione ufficiale del ruolo del Consiglio di Stato (Gosudarstvennyj Sovet). Nel testo della modifica al comma e dell’art.83 sulle prerogative presidenziali, si legge che il presidente «forma il Consiglio di Stato della Federazione Russa al fine di garantire il funzionamento congiunto e la collaborazione degli organi del potere pubblico, di determinare le principali direttrici di politica interna e estera della Federazione Russa e le priorità dello sviluppo socio-economico dello stato; lo status del Consiglio di Stato della Federazione Russa è definito da legge federale.»

Il Consiglio di Stato sembrava dovesse assumere un ruolo centrale ed essere destinato a rappresentare la continuità dell’autorità di Putin, ma con l’inserimento della norma sull’azzeramento dei mandati precedenti le modifiche, questa ipotesi sembrerebbe essere rinviata. Di fatto però si crea un ulteriore centro di potere nella complessa architettura istituzionale russa, con le implicazioni del caso.

A destare ancor maggiori perplessità sono i cambiamenti introdotti nel capitolo VIII, dedicato alle competenze degli organi locali elettivi. Le municipalità e i comuni con le modifiche presentate alla Duma e poi al voto perdono una serie di prerogative: nell’art.131 si scrive che «gli organi del potere statale possono partecipare alla formazione degli organi di autogoverno locale, nominare e revocare dagli incarichi i membri esecutivi dell’autogoverno locale». In alcune realtà questo potrebbe avere effetti tutti da verificare, come Mosca e Pietroburgo, dove molte municipalità sono espressione di maggioranze diverse da Russia Unita, o in centri strategici come Jakutsk, capitale della Jacuzia, dove la sindaca Sardana Aksentyeva è stata eletta a capo di una coalizione di sinistra nel 2018 (nella repubblica il 40,65% ha votato contro le modifiche).

Si è provato a sottolineare come l’introduzione di nuovi punti all’art. 75 (rispettivamente il 6 e il 7) sull’indicizzazione delle pensioni e sulle garanzie di sostegno ai cittadini attraverso pacchetti di aiuti sociali rappresentino un orientamento maggiormente attento alla giustizia sociale da parte del Cremlino. Le misure proposte però sono formulate in modo generico (d’altronde, è pur sempre una costituzione), e dipendono dalle leggi federali: alla luce dei sostegni non esattamente estesi e a pioggia durante il periodo di autoisolamento, il rischio è che restino dichiarazioni di principio, atte anche a superare uno dei principali momenti di insoddisfazione popolare dell’era putiniana, la riforma pensionistica del 2018.

Resterà Putin fino al 2036? Nonostante lo specchio deformato di molti media ingrandisca la questione, la domanda resta ed è pertinente. A prima vista, soprattutto alla luce dell’azzeramento dei precedenti mandati, la risposta sembrerebbe lapalissiana. Proprio perché parrebbe un’ovvietà, bisognerà fare molta attenzione a quel che succederà nei prossimi mesi e a quali evoluzioni attendono l’economia e la società in Russia. Come le modifiche costituzionali inizialmente servivano a garantire il quadro di una probabile transizione, non è detto che scenari a tal proposito possano riemergere in futuro e riservare altre sorprese. D’altronde, la storia del grande Paese non è mai stata priva di colpi di scena e repentini cambiamenti.

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