La notizia di questi giorni è che un presidente di Regione (Zaia) e il ministro della Salute (Speranza) stanno valutando la possibilità di estendere il regime del trattamento sanitario obbligatorio alle persone contagiate da coronavirus “renitenti alla cura”, con il secondo agita anche lo spettro del carcere, memore delle sanzioni previste dal “riesumato” Testo unico delle leggi sanitarie e dal Codice penale.
Se compariamo queste proposte a quello che è già stato fatto nel Regno Unito, è abbastanza evidente capire che i desiderata politici italiani sono difficilmente applicabili e scarsamente efficaci.
Senza alcuna ambiguità interpretativa, il Coronavirus Act inglese attribuisce alla polizia i poteri di imporre – anche con l’uso della forza – la sottoposizione a test e la permanenza in regime di quarantena, oltre a quelli di rintracciare e “contenere” chi si sottrae agli obblighi in questione. C’è, dunque, una distinzione chiara fra il ruolo delle autorità di polizia e quelle sanitarie che in Italia, peraltro, nemmeno sarebbe una novità, ma che è stata del tutto disattesa.
Proprio in materia di trattamento sanitario obbligatorio, l’articolo 34 della Legge 833/78, infatti, stabilisce le condizioni in base alle quali il sindaco può ordinare – sotto il controllo della magistratura – la somministrazione coatta di terapie a malati di mente non diversamente gestibili. La norma è affiancata dall’articolo 153 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza in forza del quale “gli esercenti una professione sanitaria sono obbligati a denunziare all’autorità locale di pubblica sicurezza… le persone da loro assistite o esaminate che siano affette da malattia di mente o da grave infermità psichica, le quali dimostrino o diano sospetto di essere pericolose a sé o agli altri” e che estende l’obbligo “anche per le persone che risultano affette da cronica intossicazione prodotta da alcool o da sostanze stupefacenti”. Detto in altri termini, “a ciascuno il suo”: l’autorità di pubblica sicurezza individua i soggetti pericolosi, quella sanitaria li riduce in condizione di non nuocere (a loro stessi, e alla collettività) e la magistratura ha il potere di intervenire in casi di abusi o errori.
Lungi dall’essere perfetto (e applicato sempre in modo rigoroso) questo modello è concettualmente corretto perché bilancia in modo accettabile la limitazione della libertà individuale con le esigenze di pubblica sicurezza.
Ma applicare lo schema del Tso ai (presunti) contagiati da Coronavirus è difficile e pericoloso.
È difficile, perché il numero dei potenziali destinatari della norma è estremamente elevato, essendo composto dai contagiati tout-court e non solo da quelli che presentano già sintomi conclamati (e che potrebbero, in ogni caso, essere loro stessi molto numerosi). Se escludiamo – salvo per i casi che lo richiedono – l’ospedalizzazione, non rimane che l’isolamento domiciliare coatto. Oltre al rispetto di procedure di garanzia, che non consentirebbe l’immediata “detenzione” del soggetto, applicare anche un controllo continuo, analogo a quello che viene eseguito nei confronti di chi è sottoposto agli arresti, appunto, domiciliari. E dunque con le forze di polizia che una o due volte al giorno verificano fisicamente che il soggetto sia nel luogo dove è obbligato a stare, oppure lo fanno tramite l’impiego di sistemi di sorveglianza elettronica, sperando che funzionino meglio dell’inutile e inefficace “Immuni”, il software di contact-confirmation che il governo ha da poco reso disponibile.
È pericoloso, perché espande il potere dei sindaci in materia di limitazione della libertà individuale. Come insegna l’esperienza dei Tso, nonostante le norme siano chiare sulla carta, la loro applicazione può generare abusi e distorsioni operative. Se ciò accade in un ambito tutto sommato numericamente limitato come quello delle malattie psichiatriche, quando i numeri dovessero crescere sarebbe ipotizzabile un aumento “esponenziale” – delle criticità e degli inevitabili ricorsi all’autorità giudiziaria.
Anche il deterrente del carcere è, in realtà, poco più di uno spaventapasseri. Gli illeciti penali in materia di coronavirus non prevedono la custodia cautelare (per cui il denunciato rimarrebbe “a piede libero” in attesa di giudizio) e difficilmente si potrebbe procedere “per direttissima” dal momento che sarebbero inevitabilmente necessarie perizie e accertamenti tecnici che impedirebbero una conclusione rapida del processo.
Infine, anche se la sentenza definitiva dovesse arrivare in tempi brevi (comunque, non prima che siano decorsi i termini per appellare), le pene previste consentirebbero nel peggiore dei casi il patteggiamento con sospensione della pena oppure la possibilità di sostituirla con il pagamento di una somma. E se proprio il condannato dovesse finire in carcere (ipotesi altamente più probabile per soggetti marginali o non in grado di garantirsi una difesa) questo genererebbe una concentrazione di contagiati all’interno di luoghi già gravati da problemi di sovraffollamento.
Questo ragionamento evidenzia e conferma che, in Italia, esiste una “questione pubblica sicurezza” che afferisce a scelte di public policy piuttosto che a specifici interventi normativi.
La risposta italiana all’emergenza Covid-19, come si era scritto sulle pagine di Formiche.net in tempi non sospetti, è stata caratterizzata dall’assenza di un ruolo autonomo della pubblica sicurezza, il cui controllo centralizzato si è disfatto per via delle invasioni di campo compiute dalle Regioni e dai Comuni e non arginate dal governo.
Pensare, come accadrebbe se il Tso-coronavirus diventasse realtà, di consentire agli enti locali di decidere non più in casi limitatissimi, ma in termini generali, significa che dopo i poteri di pubblica sicurezza, anche quelli di privazione della libertà personale non sono più solo nelle mani del potere giudiziario, ma in quelle di migliaia di amministratori locali.
Come direbbe un noto comico, imitando un noto amministratore locale, “ragionateci sopra…”.