Poche persone lo sanno, ma le università medievali erano comunità che anticipavano l’idea di globalizzazione di un paio di secoli, alcune di un millennio. L’Università di Bologna, fondata nel 1088, e l’Università Sorbona di Parigi, fondata nel 1150, avevano professori e studenti da tutto il mondo. Questo flusso di persone che continuava a spostarsi era una fonte di varietà intellettuale che contribuiva all’arricchimento della società nel nome della diversità.
Oggi, quella tradizione è continuata da alcune delle più prestigiose università come Harvard, Mit, Berkley, Oxford e Stanford. La diversità e la continua circolazione di idee e di persone è garantita da rigidi criteri di valutazione distinta dalla ricerca dei migliori talenti, sia tra i docenti che tra gli studenti.
Molti sistemi universitari nazionali, che dipendono principalmente da una miriade di piccole università locali, hanno perso, tuttavia, questa caratteristica. In diverse nazioni europee è normale per le piccole università locali essere frequentate da studenti e da personale docente nato e cresciuto negli stessi luoghi. Molto spesso, i migliori studenti arrivano al conseguimento del dottorato nelle loro università e diventano professori proprio nella stessa istituzione accademica.
Questo fenomeno, chiamato endogamia (dall’inglese: imbreeding), è stato studiato per molto tempo dalla letteratura scientifica. La prevalenza dell’endogamia nell’università ha alcuni effetti negativi che naturalmente riguardano gli argomenti affrontati nelle aule universitarie. L’endogamia ha anche delle importanti implicazioni etiche e sociali perché sistemi chiusi tendono a ricompensare giovani ricercatori in base alle loro “fedeltà” verso i propri mentori, piuttosto che sulla base del merito oggettivo. La fuga di cervelli, che ha drammaticamente colpito molti sistemi universitari europei, è la prova schiacciante di questo fenomeno.
La recente crisi globale causata dal Covid-19, paradossalmente, ha mostrato che le tecnologie virtuali possono aiutare a individuare una soluzione a questo problema. Negli ultimi mesi, centinaia di migliaia di istituzioni accademiche sono state obbligate a trasformare le loro lezioni frontali tradizionali nella didattica a distanza ad un livello inedito. Questo cambiamento ha dimostrato che l’ambiente virtuale fornisce innumerevoli opportunità per innovare i nostri sistemi d’istruzione a tutti i livelli.
Per esempio, in una iniziativa comune, il Center for Business in Society della Iese Business School (Barcellona, Spagna) e la Kore di Enna (Italia) hanno sfruttato questa ricchezza di nuove opportunità per creare nuovi percorsi. Nell’ambito di questo processo, all’Università Kore di Enna è stato tenuto un corso online da un professore del luogo ma con la collaborazione di cinque professori esterni, tutti collegati a prestigiose università internazionali. L’iniziativa formativa ha ricevuto un feedback eccellente dai partecipanti fornendo una pluralità di prospettive che ha aiutato ad allargare i propri orizzonti.
Incoraggiamo altre università in tutto il mondo ad approfondire le opportunità scaturite dalle piattaforme di apprendimento virtuale, specialmente quelle che sono situate in aree geograficamente svantaggiate o in Paesi emergenti.
Le piattaforme di apprendimento online possono offrire l’opportunità di accedere a competenze specifiche possedute da persone geograficamente distanti, a nuove possibilità di apprendimento (per esempio laboratori e aule online), o più semplicemente, a prospettive alternative che altrimenti sarebbero difficili da perseguire. Sia chiaro, queste sono opportunità non soltanto per gli studenti, ma anche per alcuni professori che sono spesso vittime di sistemi accademici sempre più burocratici.
Detto in altre parole, quando le tecnologie online sono correttamente utilizzate possono portare il meglio a tutti ovunque nel mondo – e in particolare a quelli che sono più disagiati. Questa è una considerazione etica che non dovremmo mai dimenticare quando riflettiamo sul futuro dell’istruzione.
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