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Usa, Cina e lo Stato di diritto. Pericoloso strumentalizzare il rule of law. L’analisi del prof. Monti

cina

L’eccidio silenzioso che si sta consumando nella Cold War II fra Cina e Usa è quello del rule of law, il primato assoluto della legge, teorizzato da Cicerone (legum servi sumus, ut liberi esse possimus) e applicato nella pratica politica fin dal 1200 con la Magna Carta che impose al re Giovanni Senza Terra di rispettare le regole del “giusto processo” – e dunque di smettere buttare in galera le persone secondo capriccio.

Il rule of law è il pilastro della democrazia occidentale, la garanzia della tenuta democratica di un Paese e “taglia in due” il mondo: da una parte libertà, dall’altra potere assoluto. In un paradossale sovvertimento di piani, tuttavia, gli Usa trasformano in notizia la mera incriminazione di quattro ricercatori cinesi che, non essendo stati ancora condannati, sono ancora protetti dalla presunzione di innocenza. La Cina, dal canto suo, lamenta la violazione dei diritti umani dei propri cittadini commessa dagli Usa.

Nello stesso tempo, però, nella Terra di mezzo si pratica il fǎ zhì non come “rule of law” (法制) ma come “rule by law” (法治). I due ideogrammi si pronunciano quasi nello stesso modo ma hanno un significato profondamente diverso (vedi l’interessante saggio di Ignazio Castellucci “Rule of law and legal complexity in the People’s Republic of China” pubblicato dall’Università di Trento). Nel primo, la legge è “sistema” e dunque concetto simile a quello occidentale di “rule of law”, nel secondo, la legge è “strumento” e dunque sottoposto alla volontà del potere. Difficilmente, dunque, si potrebbe parlare in Cina di supremazia dei diritti fondamentali, ma è proprio la violazione dei diritti fondamentali che la Cina invoca a proposito della vicenda di cronaca.

Dunque, per sintetizzare, la “patria della democrazia” non aspetta la fine di un processo per considerare colpevoli degli imputati, l’archetipo del regime antidemocratico invoca il rispetto dei diritti fondamentali della persona.

Questa, ripetiamo, paradossale inversione di piani è la conseguenza dell’avere trascinato il primato della legge nel mondo della realpolitik dove il fine giustifica il mezzo a qualsiasi costo compreso, come nel caso della pandemia, concepire lo stato di emergenza con stato di eccezione (cioè trasformare la necessità di decidere velocemente in potere esecutivo legibus solutus).

Pericolosamente, anche gli Stati Uniti stanno scivolando dal “rule of law” al “rule by law” e dunque in nome dell’applicazione tattica di una strategia politica, mettono in discussione il funzionamento di un principio di garanzia internazionalmente riconosciuto che, per rimanere tale, dovrebbe permanere in uno stato di neutralità.

Ma questo non accade. La neutralità è persa e l’attenuazione della forza del primato della legge diventa funzionale al perseguimento di obiettivi geopolitici.

Un riscontro oggettivo di questo mutamento emerge dal modo in cui gli Usa gestiscono la comunicazione (geo)politica relativa alla Cina e al Coronavirus.

La responsabilità della Cina per la diffusione della pandemia è definitivamente entrata nella narrativa statunitense senza più bisogno di fornire prove a sostegno. Una dichiarazione del Segretario di Stato Mike Pompeo riportata da Federico Rampini su Repubblica.it dice testualmente “Oggi siamo qui a indossare maschere e a fare il conteggio dei morti della pandemia perché il partito comunista cinese ha tradito le sue promesse”.

È un cambio di passo nella scelta di comunicazione americana che non ha più bisogno di invocare “atti di fede” o appoggiarsi alle “conferme” di Paesi amici. Il “fatto” è oramai accertato e non c’è bisogno di “prove” o “sentenze” per considerare “vero” quello che “tutti sanno”.

È vero: il rule of law funziona nelle aule giudiziarie e non nelle sale delle conferenze stampa. Quindi, al di fuori delle corti, nessuno – media e governi, in particolare – è tenuto a seguire queste regole rigide che limitano scoop e braccio di ferro. Ma sappiamo già cosa vuol dire trasformare la legge da sistema a strumento perché abbiamo già di fronte l’esempio concreto di cosa significa.

Invocare “pieni poteri” al di sopra e al di fuori del primato della legge, o ridurre il primato della legge a strumento tattico, significa pensare di poter scacciare i dèmoni diventando peggio di loro (Luca 11, 15-26). Al precetto evangelico si contrappone, dunque, il principio espresso dal Sun Tzu ne L’Arte della guerra secondo il quale per conoscere il nemico devi diventare come lui.

È quello che sta succedendo alle democrazie occidentali? Accettando compromessi sui principi, e dunque concepire la legge come “strumento”, provoca esattamente questo: la trasformazione di una democrazia basata sulla certezza delle regole, in un sistema basato sul potere.

La confutazione classica di questo argomento è che attiene alla filosofia politica o giuridica, mentre negli scenari geopolitici reali le regole ordinarie possono essere flesse o violate (paradigmatico è il caso dello spionaggio) in nome del perseguimento di un obiettivo di interesse nazionale.

In realtà non è così perché la costruzione di valori identitari attorno ai quali raccogliere una nazione è un elemento fondamentale del sostegno all’operato della classe politica sia per quanto riguarda gli affari interni, sia per quanto attiene alla politica estera. A questo proposito, il tema rileva almeno in due ambiti: quello della collocazione internazionale di un determinato Paese, e il tipo di rapporto che si instaura all’interno di un’alleanza nella gestione degli equilibri fra interessi nazionali e interessi della coalizione che non necessariamente possono coincidere.

Da una prospettiva atlantista, dunque, il rispetto del rule of law diventa un elemento che può svolgere un ruolo di coesione efficace proprio per la sua trasversalità. Non essendo legato a interessi specifici o particolari, infatti, può più facilmente rappresentare il “sentire comune” che giustifica e sostiene l’esistenza di un’alleanza politica, economica e militare.



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