Angela Merkel, 12 visite in Cina in 15 anni di cancellierato, rimane “il più fedele alleato” di Pechino, scrive il South China Morning Post sottolineando come ciò non sia cambiato molto nonostante le recenti questioni che riguardano Huawei, Hong Kong, lo Xinjiang e la pandemia di coronavirus. Il quotidiano hongkonghese evidenzia però come in tre lustri l’approccio dell’Unione europea verso la Cina sia cambiato e ora gli sforzi della cancelliera rischino di essere vanificati nel caso in cui i 27 e Pechino non dovessero firmare l’atteso accordo commerciale entro fine anno (cioè entro la fine del semestre di presidente tedesca del Consiglio dell’Unione europea).
Una possibilità nient’affatto remota, visto che molti Paesi membri hanno già fatto capire alla Germania che la fretta non può guidare i negoziati (rallentati dal coronavirus) e che l’Unione europea non può permettersi un accordo al ribasso soltanto per soddisfare Berlino.
IL PESO DELL’AUTO
Grande critico dello stretto rapporto tra Berlino e Pechino nell’era Merkel è Reinhard Bütikofer, eurodeputato tedesco, portavoce dei Verdi europei per la politica estera e presidente della delegazione del Parlamento europeo per le relazioni con la Cina. Bütikofer ha puntato il dito contro Volkswagen (il colosso dell’auto tedesca che fa grandi affari con Pechino e ha una fabbrica anche a Urumqi, nello Xinjiang) dalle colonne di Politico. “È un’azienda senza alcuna coscienza”, ha dichiarato. E ha aggiunto: “società del genere sono complici nel sostenere l’inferno totalitario nello Xinjiang”.
Al centro dello scontro tra l’eurodeputato e Volkswagen c’è un rapporto di febbraio pubblicato dall’Australian Strategic Policy Institute (che secondo Huawei Australia lavora da lobby anticinese più che da think tank) che racconta le deportazioni di massa di uiguri ai lavori forzati nello Xinjiang. Nel documento Volkswagen è tra le “società che beneficiano direttamente o indirettamente dell’uso di lavoratori uiguri fuori dallo Xinjiang attraverso programmi potenzialmente abusivi di deportazioni per lavoro”. La casa automobilistica ha respinto ogni accusa ma Bütikofer, che accusa la Commissione europea di non fare abbastanza per contrastare le violazioni dei diritti umani da parte delle autorità cinesi, non crede alla difesa criticandola per “negare qualsiasi conoscenza dell’oppressione del popolo uiguro nello Xinjiang”.
La posta in palio per il verde Bütikofer è estera, ma anche interna: colpire l’industria automobilistica significa, infatti, colpire un enorme bacino elettorale dell’Unione Cdu-Csu guidata dalla cancelliera.
IL GIOCO DI MOSCA
All’interno del quadro delle relazioni tra Germania e Cina rientrano anche le recenti dichiarazioni del ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, al quotidiano Rheinische Post. Il capo della diplomazia di Berlino ha bocciato i piani del presidente statunitense Donald Trump sostenendo che la Russia non ha al momento alcuna possibilità di rientrare nel G7, da cui è stata esclusa nel 2014 a seguito delle sue iniziative in Ucraina, culminate con l’annessione della Crimea. Inoltre, secondo il ministro degli Esteri tedesco, “G7 e G20 sono due formati coordinati, non abbiamo bisogno di G11 o G12”. Il riferimento è alla possibilità di allargare il G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti) ad altri Paesi (Australia, Brasile, Corea del Sud e India), oltre alla Russia, in chiave anti Cina.
Da Mosca — che con Berlino ha in ballo questioni energetiche come il Nord Stream 2 che hanno alimentato nuove tensioni tra Germania e Stati Uniti — il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha dichiarato che “il presidente Vladimir Putin non ha mai presentato alcuna iniziativa, o adottato alcuna misura per riprendere la partecipazione della Russia al G7”. E ancora: “Abbiamo ripetutamente detto di essere assolutamente soddisfatti dell’efficienza del formato G20, che, crediamo, risponde meglio alla moderna realtà economica, prendendo in considerazione i centri mondiali dello sviluppo economico”.