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Anac, perché la deregulation non basta. L’analisi di Roberto Garofoli

Di Roberto Garofoli

Il rinnovo dei vertici dell’Anac ha animato un dibattito che non può trascurare un aspetto decisivo, quello dei valori e degli obiettivi da realizzare nel settore degli appalti pubblici e della missione di quell’Autorità. Secondo alcuni, nel 2014 fu commesso un errore assegnando all’Anac – istituita per la trasparenza e l’anticorruzione nella P.A.- importanti compiti in tema di appalti.

A questo settore, che muove circa il 10% del Pil nazionale, andrebbe preposta un’Autorità diversa che abbia per missione prioritaria l’efficienza gestionale più che la trasparenza, la prevenzione e la concorrenza. Secondo quell’opinione, l’Anac andrebbe “scissa” per esercitare le sole competenze per le quali è stata creata, senza più occuparsi di appalti.

Il tema è cruciale: trasparenza, contrasto amministrativo alle illegalità, concorrenza vanno conciliati con l’esigenza di una gestione fluida degli appalti pubblici o occorre in parte sacrificare i primi perché sono un fattore di freno? Una sintesi è possibile e va perseguita? E che ruolo può avere in questo l’Anac?

La difficoltà di coniugare quei valori e quegli obiettivi è attestata dalle oltre 70 modifiche introdotte in 12 anni al codice degli appalti, a cui si aggiungono quelle inserite nel 2019 con il decreto “Sblocca Cantieri” e nel 2020 con il decreto” Semplificazioni”.

Quest’ultimo, oltre a ridimensionare la responsabilità erariale e il reato di abuso di ufficio, punta su affidamenti diretti, procedure negoziate senza bandi e Commissari straordinari.

Una sostanziale deregolamentazione del settore con cui si è inteso dare una risposta politica e immediata alla situazione post pandemica. Per evitare, però, che si debba presto “prorogare la deregolamentazione” è necessario investire sin d’ora sul funzionamento di un sistema ordinario che sappia gestire gli appalti non solo in efficienza ma anche garantendo concorrenza e trasparenza. Partiamo da dati e analisi.

La Relazione Anac del 2020 indica in 169,9 miliardi di euro il valore complessivo degli appalti banditi nel 2019: un valore superiore del 22,9% rispetto al 2018 e del 69% rispetto al 2016, quando entrò in vigore il Codice dei contratti pubblici. E’ evidente quindi che non può essere quel Codice la causa esclusiva delle inefficienze, che tuttavia non mancano.

Alcuni recenti studi della Banca d’Italia ricordano che l’Italia si colloca in una posizione arretrata rispetto ad altre economie quanto a tempi (oltre che costi) di realizzazione delle opere pubbliche. Non tutte le inefficienze sono però dovute alle regole che si vuole eliminare nell’ansia di sburocratizzare.

Alcune norme sono senza dubbio eccessive: vanno semplificate e alleggerite. È il noto tema del gold plating. Molte altre, però, sono state introdotte per presidiare concorrenza, regolarità fiscale e contributiva, contrasto ai conflitti di interessi, trasparenza e prevenzione delle infiltrazioni illegali. E non possono essere eluse. Bisogna conciliarle con la necessità che il sistema funzioni al meglio.

Come? Con stazioni appaltanti più qualificate, ad elevata competenza tecnica e digitale, con informatici, ingegneri, legali ed esperti dei singoli settori interessati: con l’obiettivo di un reale salto tecnologico.

Il legislatore nel 2014 e nel 2016 aveva tracciato il percorso: si è in parte interrotto. Occorre riavviarlo, anche intervenendo su alcune distorsioni emerse. La riforma ruotava attorno a due pilastri: la centralizzazione degli appalti per alcune categorie di prodotti e per il resto la necessaria qualificazione delle stazioni appaltanti, così come voluta dal Codice del 2016.

Per decisione politica – come denunciato dallo stesso Presidente Cantone all’indomani del decreto Sblocca Cantieri del 2019 – la centralizzazione degli appalti ha subito una battuta d’arresto, mentre la qualificazione non è mai partita.

Entrambe sono riforme necessarie perché mirano a contrastare la polverizzazione e l’odierna debolezza strutturale delle stazioni appaltanti. Riforme che perseguono non solo economie di scala ed evoluzione digitale, ma prima ancora la professionalizzazione di chi gestisce gli appalti e la necessaria conoscenza quindi dei prodotti e dei servizi da acquistare, dei mercati di riferimento e delle norme da applicare.

Oggi (dati Anac 2020) operano in Italia 38.393 stazioni appaltanti, nel 2017 erano 36.784. Non è pensabile dotare oltre 38 mila uffici pubblici di personale qualificato ed adeguato. Se la politica decidesse di tornare a puntare su queste riforme strutturali, l’Anac potrebbe giocare un ruolo importante nel processo di riorganizzazione del settore.

L’obiettivo è un sistema efficiente nel quale l’Anac possa vigilare e collaborare con un numero congruo di Amministrazioni appaltanti d’avanguardia e non con circa 40.000 uffici, come oggi.

Si tratta di far parlare lo stesso linguaggio a tutte le stazioni appaltanti. L’efficienza non può essere perseguita a discapito di trasparenza e concorrenza, valori irrinunciabili per la crescita di un tessuto economico sano. Per questo, la deregolamentazione da sola non è la strada su cui puntare, se non intesa come risposta transitoria; serve accompagnarla con un sentiero strutturale di riforma del settore. A queste condizioni l’Anac potrà continuare ad avere un ruolo di guida sugli appalti.

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