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Violenza. La gelosia non è un’attenuante

impresa, governo, femminicidio

La gelosia e le botte sono una aggravante per chi compie delitti alla persona. La sentenza del 29 luglio scorso apre finalmente la strada a una giustizia severa per le donne perseguitate e maltrattate. Ma ci è voluto il ricorso in Cassazione per avere ragione.

La Corte Suprema di Cassazione ha chiarito che la gelosia può integrare l’aggravante dei motivi abietti o futili di cui all’art. 61, n. 1), c.p. non soltanto allorché essa sia connotata dall’abnormità dello stimolo possessivo verso la persona offesa, ma altresì quando la stessa sia permeata da uno “spirito punitivo”, produttivo di aberranti reazioni emotive a comportamenti della vittima percepiti dall’agente come atti d’insubordinazione: sulla centralità del principio di autodeterminazione delle persone – correlato con il fondamentale valore della dignità umana – riposa la configurazione in termini di maggiore gravità delle condotte violente che affondino le radici in un deviato sentimento di appartenenza, nutrito dall’imputato nei confronti dell’individuo con il quale ha intrattenuto una relazione affettiva. In particolare, l’accertamento della circostanza aggravante dei futili motivi richiede la duplice verifica del dato oggettivo, costituito dalla sproporzione tra il comportamento posto in essere ed il motivo che l’ha ispirato, e del dato soggettivo, rappresentato dalla possibilità di contrassegnare detta sproporzione quale espressione di un moto interiore assolutamente ingiustificato, cosicché lo stimolo esterno diviene il mero pretesto per la liberazione di un impulso criminale. La Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 3 – 29 luglio 2020, n. 23075. Alla luce del motivo di ricorso, con sentenza del 13/06/2019, la Corte d’appello di Roma ha confermato la decisione di primo grado, con riguardo alla affermazione di responsabilità di un uomo , in relazione al reato di cui agli artt. 582, 583, 577, cod. pen.

La Corte territoriale, in particolare, ha osservato che la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 1, cod. pen., non poteva essere esclusa, in quanto le lesioni, cagionate dall’imputato dopo la fine della relazione con la persona offesa, erano il frutto dello spirito punitivo nutrito nei confronti della donna, considerata come una propria appartenenza: la spinta ad agire, in definitiva, era priva di quella minima consistenza che la coscienza collettiva esige per operare un collegamento logicamente accettabile con l’azione commessa, talché essa appariva assolutamente sproporzionata all’entità del fatto.

I fatti: nell’interesse dell’imputato è stato proposto ricorso per Cassazione, affidato ad un unico motivo, con il quale si lamentava inosservanza o erronea applicazione dell’art. 61, n. 1, cod. pen., tenuto conto che, alla luce della giurisprudenza di legittimità, non può configurare motivo abietto o futile la gelosia, ancorché collegata ad un abnorme desiderio di vita comune. Si aggiunge che, in ogni caso, la condotta aveva provocato lesioni guaribili in tre giorni. Ma la Corte considerato in diritto ha considerato la doglianza infondata.

Avendo avuto modo di chiarire di recente che la gelosia può integrare l’aggravante dei motivi abietti o futili, quando sia connotata non solo dall’abnormità dello stimolo possessivo verso la vittima o un terzo che appaia ad essa legata, ma anche nei casi in cui sia espressione di spirito punitivo, innescato da reazioni emotive aberranti a comportamenti della vittima percepiti dall’agente come atti di insubordinazione (Sez. 1, n. 49673 del 01/10/2019, P, Rv. 27808202; Sez. 5, n. 44319 del 21/05/2019, M, Rv. 27696201).

Proprio quest’ultima decisione, superando sfumature linguistiche che hanno accompagnato in passato, nella giurisprudenza di questa Corte, un non esplicito superamento di posizioni ormai lontane dalla coscienza collettiva, sottolinea espressamente – e in termini condivisi dal Collegio – la centralità del principio di autodeterminazione delle persone, correlato al fondamentale valore della dignità umana, che vale a giustificare la connotazione in termini di maggiore gravità delle condotte violente che trovino il loro movente nel senso di appartenenza nutrito dall’imputato nei confronti dell’individuo con il quale ha condiviso una relazione sentimentale (nel caso di specie, cessata). Tale conclusione si inserisce nella più ampia cornice alla stregua della quale l’accertamento della circostanza aggravante dei futili motivi, dovendo svolgersi con metodo bifasico, richiede la duplice verifica del dato oggettivo, costituito dalla sproporzione tra il reato concretamente realizzato e il motivo che lo ha determinato, e del dato soggettivo, costituito dalla possibilità di connotare detta sproporzione quale espressione di un moto interiore assolutamente ingiustificato, tale da configurare lo stimolo esterno come mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale (Sez. 5, n. 45138 del 27/06/2019, Vetuschi, Rv. 27764101).

Ora, razionalmente tali principi hanno trovato applicazione nel caso di specie, in cui l’imputato, secondo l’accertamento dei giudici di merito, ha buttato per terra la persona offesa, le ha dato una testata e poi l’ha sbattuta contro un muro. Alla pronuncia di rigetto consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


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