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Biden fa ciò che gli riesce meglio: l’equilibrista. Il punto di Gramaglia

“Uniti possiamo e riusciremo a superare questa stagione di tenebre”: con l’impegno a rimettere insieme una Nazione divisa, Joe Biden ha accettato la nomination a candidato democratico alla Casa Bianca. La chiusura della convention democratica non è stata né spettacolare né trascinante: Biden ha fatto il discorso più importante della sua carriera politica di fronte a una sala semi-vuota, senza le acclamazioni dei delegati, i boati del pubblico, i palloncini e i coriandoli rossi, blu e bianchi.

La convention s’è formalmente svolta a Milwaukee, nel Wisconsin, ma di fatto è stata virtuale. Vedremo se la prossima settimana i repubblicani sapranno fare scenograficamente e mediaticamente meglio.

La scena era anomala, ma il compito – notano gli analisti politici — era familiare a Biden: trovare una posizione di equilibrio tra l’ala sinistra del suo partito, sempre più forte e vocale, e i moderati, compresi quegli elettori repubblicani che cercano un’alternativa loro accettabile alla figura divisiva di Donald Trump.

Giovanni Russonello, sul New York Times, scrive: “Questa è tutta la carriera politica di Biden”, trovare una posizione di equilibrio. Quarantotto anni dopo la sua prima campagna per il Senato – fu eletto senatore del Delaware a 31 – e 33 dopo il suo primo tentativo di ottenere la nomination, “Biden, che ha passato in Senato 36 anni, sei mandati, è ben noto come mediatore e prammatico, uno che sa più sfruttare il vento che andare contro vento”.

È più difficile, per lui, apparire fermo, solido, energico, l’uomo giusto per momenti difficili. Però, la chiave della sua campagna — come dice bene il suo slogan ‘Build Back Better’ — è sapere fare meglio del suo predecessore, non essere il migliore.

Biden dice che “è tempo di mettere la Nazione su una nuova strada”, accusa Trump di essere portatore “di troppi rabbia e odio”, assicura che la sua priorità da presidente sarà l’epidemia, fa l’elogio della sua vice Kamala Harris (“una voce potente di questa campagna”) ed esprime l’orgoglio di essere stato il vice di Barack Obama, “un grande presidente”.

Nella serata finale, presentata dall’attrice Julia Louis-Dreyfuss, hanno parlato Michael Bloomberg (“Mettiamo fine a un triste capitolo della nostra storia”), Cory Booker (“Trump mente e ha fallito”), Tammy Duckworth (“Con Biden e Harris, una Nazione che costruisce”), Andrew Yang (“Siamo in un buco nero: diamo una possibilità al Paese”), Pete Buttigieg (“Con Biden e Harris, un futuro migliore”), la sindaca di Atlanta Keisha Lance Bottoms (“Abbiamo protestato, adesso votiamo!”). E Bernie Sanders in televisione parla di Biden come del “presidente più progressista” dopo Franklyn D. Roosevelt.

Al termine del discorso, Joe viene raggiunto sul palco dalla moglie Jill, che l’abbraccia e lo stringe. Poi arrivano la vice designata, Kamala Harris, col marito Douglas Emhoff. Fuori dal convention center di Wilmington, dove ha parlato, Joe, che tiene per mano Jill, è accolto da un ‘bagno di folla’ a misura di epidemia: fuochi d’artificio e bandiere, distanze sociali e mascherine, un po’ di gente che — in modalità drive-in — ha seguito la convention sui maxi schermi.

Temi e toni del discorso di Biden stridono con l’immagine che ne ha dato il presidente candidato, cercando in più modi di rubargli la scena: andando a parlare a Scranton, in Pennsylvania, dove nacque il suo rivale, facendo una conferenza stampa, dando un’intervista alla Fox. Trump gliene dice di tutti i colori: “Joe è il peggiore incubo”, un “pupazzo della sinistra radicale che vuole distruggere l’America”; “Joe vi porterà via le vostre armi” e porterà avanti il “maggiore aumento delle tasse della storia, sprecando poi i soldi per il Green New Deal”; “Joe metterà fine alla ripresa dell’economia” e imporrà un lockdown permanente.

E ancora: “In gioco, c’è la sopravvivenza della Nazione, perché dall’altra parte ci sono dei pazzi… L’unico modo in cui i democratici possono vincere le elezioni è se sono truccate… Se volete criminali votate i democratici: non parlano di legge e ordine e vogliono tagliare i fondi alla polizia”.

Ma le notizie più imbarazzanti della giornata di giovedì, per Trump, non venivano da Milwaukee o da Wilmington, ma da New York, dove Steve Bannon, stratega nel 2016 della sua campagna e poi suo consigliere alla Casa Bianca, è stato arrestato.

L’inchiesta che lo coinvolge riguarda un’organizzazione chiamata ‘We Build the Wall’, ‘costruiamo il muro’, quello antimigranti lungo il confine con il Messico, promesso da Trump ma non fatto.

Bannon è stato preso su uno yacht da 28 milioni di dollari, il Lady May, proprietà di Guo Wengui, un miliardario cinese che sarebbe ricercato da Pechino per frode e tangenti.

Comparso in tribunale in manette e dichiaratosi “non colpevole”, Bannon è stato messo in libertà, pagando una cauzione da 5 milioni di dollari e con restrizioni sui movimenti: potrà viaggiare fra New York e Washington, ma non può recarsi all’estero o usare aerei o barche privati.

Per portare avanti il progetto del muro, che il Congresso non ha mai finanziato, la Casa Bianca ha spesso fatto ricorso ad artifici amministrativi, la cui legittimità è stata spesso contestata. Bannon, con tre suoi soci, pure sotto accusa, aveva raccolto online oltre 25 milioni di dollari. Ma un milione sarebbe finito nelle tasche dell’ideologo del ‘sovranismo globale’, che l’avrebbe in parte utilizzato per sue spese personali.

A perseguire Bannon e i suoi sodali, è la magistratura federale del Southern District di New York: l’accusa è di avere frodato centinaia di migliaia di finanziatori, facendo leva sul loro desiderio di contribuire a finanziare la costruzione del muro al confine con il Messico.

La notizia imbarazza Trump, che prende subito le distanze dalla vicenda e dal suo ex stratega. “Non è affare nostro: rivolgetevi al Dipartimento della Giustizia”, dice il direttore della comunicazione della Casa Bianca, Alyssa Farah, a chi le chiede un commento. E la portavoce del presidente Kaleigh McEnany dice che il magnate “non ha nulla che fare con Bannon dalla campagna elettorale e dall’avvio dell’amministrazione” e che “non conosce le persone coinvolte” nel progetto ‘We Build The Wall’.

In realtà, Bannon accompagnò Trump alla Casa Bianca e gli resto accanto fino all’agosto del 2017, quando fra i due ci fu una rottura la cui dinamica non è mai stata del tutto chiarita. Il presidente dice: “È una cosa molto triste per Bannon, ma non ho a che fare con lui da molto tempo. Non so nulla del progetto ‘We Build the Wall’” che, però, “non mi piaceva: pensavo fosse stato fatto per mettersi in mostra”, ma “non è appropriato” finanziare il muro con fondi privati.

La grana di Bannon s’interseca con l’ennesima sconfitta giudiziaria per Trump sul fronte tasse: ieri, un giudice federale della corte distrettuale di Manhattan, Victor Marrero, ha stabilito che il magnate deve consegnare le sue dichiarazioni fiscali alla magistratura di New York, respingendo il tentativo dei legali del presidente di bloccarne la diffusione e definendo le motivazioni della richiesta “ampiamente esagerate” e in cattiva fede. La procura generale di New York, che ha già avuto l’avallo della Corte suprema, punta a ottenere otto anni di dichiarazioni delle tasse personali e aziendali di Trump nell’ambito delle indagini sulle sue attività, in particolare quelle alberghiere.

Fronte coronavirus, i dati della Johns Hopkins University, aggiornati a mezzanotte sulla East Coast, indicano che i casi di contagio negli Usa superano i 5.573.000 e i decessi si avvicinano a 174.250.


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