La visita in Italia del ministro degli Esteri cinese è occasione per alcune riflessioni sulle tre questioni che sono oggettivamente sul tavolo della politica. Nella conferenza stampa che ha seguito l’incontro bilaterale con il ministro italiano Luigi Di Maio, Wang Yi ha dichiarato che le relazioni tra l’Europa e la Cina “subiscono provocazioni e danneggiamenti da forze esterne”.
Dal punto di vista cinese questa lettura può essere coerente e logica, perché l’Europa è il terminale di tutte le connessioni infrastrutturali, materiali ed immateriali, contenute nella pianificazione delle “nuove vie della Seta”, il principale progetto strategico del partito comunista cinese.
Dal loro punto di vista è comprensibile che i cinesi giudichino sabotatori tutti gli interventi che possono ostacolare la realizzazione del loro piano. Tuttavia il concetto di “forze esterne”, che si riferisce chiaramente alla posizione degli Stati Uniti, merita un approfondimento. Esterne a cosa? All’Italia o all’Europa? Alla relazione tra Europa e Cina? La semplificazione concettuale rivela immediatamente un’omissione voluta ed interessata, ma inaccettabile: l’Italia, e gran parte dei Paesi dell’Ue, aderiscono all’Alleanza Atlantica.
E non si può dimenticare che nella premessa al trattato istitutivo della Nato c’è scritto che “gli Stati che aderiscono al presente Trattato riaffermano la loro fede negli scopi e nei principi dello Statuto delle Nazioni Unite e il loro desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e con tutti i governi. Si dicono determinati a salvaguardare la libertà dei loro popoli, il loro comune retaggio e la loro civiltà, fondati sui principi della democrazia, sulle libertà individuali e sulla preminenza del diritto. Aspirano a promuovere il benessere e la stabilità nella regione dell’Atlantico settentrionale. Sono decisi a unire i loro sforzi in una difesa collettiva e per la salvaguardia della pace e della sicurezza”.
Potrebbe bastare questo impegno, sottoscritto il lontano 4 aprile del ’49 dal nostro Paese, per spiegare perché non si possa alludere ad ingerenze di “forze esterne”. Basterebbe anche per comprendere la necessaria cautela del governo, e in particolare dei ministri del Partito democratico, che rappresentano le preoccupazioni di tutto il partito per il mantenimento della coesione e la solidità dell’Alleanza Atlantica.
Tuttavia è meglio entrare nelle ragioni di merito, per focalizzare le questioni irrisolte nelle relazioni con la Cina. Il principio sopra richiamato della democrazia, delle libertà individuali e della preminenza del diritto non è una vuota formula retorica, ma è il fondamento culturale, politico ed etico della nostra civiltà, pertanto non è negoziabile. Ha fatto bene il ministro degli Esteri Di Maio a porre, seppure in maniera un po’ timida, la questione di Hong Kong, sia in termini di autonomia che di libertà.
La repressione delle proteste dei giovani di Hong Kong rappresenta la piccola parte emergente di un problema politico ed etico molto più grande, che non può rimanere immerso, occultato dagli interessi economici e commerciali di entrambi. Il ministro Wang Yi invoca “il principio di non ingerenza negli affari interni”, perché le rivolte di popolo sono una minaccia per l’unità della nazione cinese, e nella storia cinese sono state proprio le rivolte cominciate nella periferia dell’impero, poi cresciute nei territori adiacenti, a minacciare la sede centrale del potere.
Cadde così la dinastia Tang nel X secolo, come fu inizio della decadenza la rivolta dei Taiping, a metà Ottocento, che portò a 20 milioni di morti ed alla fine della dinastia Quing, l’ultima tappa dell’Impero Celeste, destinato a cadere nel 1912. Fu questa paura della “disintegrazione” della Nazione che spinse Deng Xiaoping a reprimere ferocemente e nel sangue le proteste dei giovani che chiedevano libertà e democrazia in Piazza Tienanmen nel 1989.
Anche a Hong Kong il regime cinese teme che la scintilla della protesta possa appiccare un incendio. La relazione che volgiamo coltivare, di amicizia e di scambio economico tra Italia e Cina, non può nascondere il fatto che per noi la soppressione delle libertà individuali e la mancanza del rispetto dei diritti umani rappresenta il primo, grande, problema irrisolto. C’è poi un secondo problema, che non si può tacere.
Il Pd ha criticato giustamente la decisione del presidente americano Trump di erigere il muro dei dazi doganali per proteggere l’economia americana dalla concorrenza cinese, tassando il 70% dei prodotti importati (era meno del 30%), con una pressione fiscale media che passa del 3% al 24%. Alla lunga la conseguenza delle economie chiuse e la limitazione del libero scambio commerciale non porta mai ricchezza, ma povertà.
Ma bisogna dire con altrettanta forza che la chiusura protezionista americana pareggia a stento il livello dei dazi praticati da Pechino già molto prima che cominciasse il braccio di ferro tra i due Paesi. Quando la Cina era una nazione sottosviluppata, e rischiava di soccombere alla concorrenza occidentale, negoziare regole agevolate che ne favorissero la crescita poteva essere giusto, ma adesso che è una superpotenza economica questo non ha più alcun senso. In assenza di regole comuni e di reciprocità non esiste il libero commercio, perché vi sono posizioni di privilegio e di vantaggio che squilibrano il mercato e danneggiano una parte, che spesso è la più debole, a favore dell’altra.
L’Italia non può fingere di ignorare questo problema. I capitali cinesi, privati o pubblici, vengono investiti liberamente nell’economia italiana e i cinesi hanno acquisito sul mercato libero aziende come Pirelli, Candy, Krizia, Ferretti Yacht, Windtre, o squadre di calcio come Inter e Milan, e persino partecipazioni al capitale Cdp reti, la holding pubblica che detiene la proprietà di importanti infrastrutture critiche.
Per contro la legge cinese impedisce ad un italiano di acquisire il controllo di una qualsiasi società cinese. Uno straniero può investire in Cina solo se il controllo della società resta in mano cinese, ed il socio cinese detiene sempre più del 50% del capitale sociale.
Inoltre la trasparenza delle società di auditing è discutibile, a volte coperta dal segreto di Stato, le garanzie di imparzialità del sistema giudiziario cinese per l’investitore straniero non ci sono, e la tutela dei diritti, della proprietà intellettuale o dei marchi sono inesistenti. Il sistema occidentale garantisce all’investitore cinese la possibilità di ricorre ad un tribunale imparziale per far valere i suoi diritti, il sistema cinese non offre pari garanzie all’investitore occidentale.
In Italia si discute con più o meno preoccupazione delle mire cinesi sul porto di Taranto e sull’Ilva, in Cina pari mire occidentali sarebbero impossibili, perché impedite dalla legge. È questa evidente mancanza di reciprocità e trasparenza che introduce il terzo problema, quello che ora pesa come un macigno sul tavolo della politica.
Nel settore tecnologico e nelle infrastrutture più delicate per la sicurezza nazionale, quelle delle telecomunicazioni, l’offerta di tecnologia cinese è certamente concorrenziale sia dal punto di vista della tecnologia, che è molto avanzata, che del costo, che è molto competitivo. Dunque per costruire le nuovi reti 5G tutte le società di telecomunicazioni, che sono private e debbono contenere i costi e produrre utili per gli azionisti, avrebbero certamente convenienza ad acquisire tecnologia cinese.
Ma la politica deve domandarsi se questo interesse privato coincide o meno con l’interesse nazionale. Mentre le nostre leggi per favorire la libera concorrenza impediscono gli aiuti di Stato a tutte le imprese nazionali, produttori come Huawei e Zte sono fortemente aiutati e sostenuti dallo Stato cinese, nel tentativo di insediarsi nel cuore del sistema tecnologico delle comunicazioni occidentali. Per questa ragione i prodotti sono tecnologicamente molto avanzati e competitivi nel prezzo.
La legge cinese impone però a queste società l’obbligo di collaborare con gli apparati nazionali di intelligence e di sicurezza, quando la Repubblica Popolare Cinese lo ritenesse necessario o utile all’interesse nazionale. Non si tratta quindi di semplici aziende, ma di strumenti strategici nelle mani dello Stato. Né si tratta di fare un processo alle intenzioni, o di accusare la Cina di azioni malevole o di potenziale malafede, ma solamente di osservare una minima prudenza nei confronti di un Paese che non appartiene al nostro sistema di alleanze, e che manifesta anche palesi ostilità nei confronti dei nostri alleati.
In un futuro molto prossimo sulle nuove reti 5G circolerà la totalità delle informazioni relative alla nostra vita quotidiana, funzioneranno i sistemi tecnologici delle nostre imprese produttive, i sistemi di trasporto, quelli finanziari, quelli della sicurezza urbana, e persino quelli militari. Chi avesse la possibilità di manipolare o interrompere il funzionamento di queste reti avrebbe potenzialmente il controllo dell’Italia e della vita degli italiani.
Basta la saggezza del buon padre di famiglia per capire che non è prudente introdurre tecnologia di rete cinese, controllabile da remoto, nel cuore di un’infrastruttura tanto importante e critica. Ci sono scelte che quando si rivelano sbagliate non sono più reversibili, perché ci si rende conto di aver sbagliato sempre quando è troppo tardi.
Non c’è nessuna convenienza economica che possa giustificare la decisione di correre un simile rischio, e il governo italiano non può farlo correre al Paese. Affrontare questi tre nodi problematici in maniera chiara e determinata non significa voler compromettere le relazioni diplomatiche, commerciali e di amicizia tra due Paesi. Significa riconoscere il nostro interesse nazionale ed averlo a cuore.
Questo è il compito ed il dovere della politica. Le relazioni tra l’Italia e la Cina hanno una storia bella e lunga secoli, che viene sin dai tempi lontani di Marco Polo, ed anche da prima. Mantenere vive queste relazioni ed aperto il confronto, ed anche la collaborazione, senza tabù ideologici rozzi e sciocchi, è giusto ed utile, ma bisogna farlo con la schiena dritta.