Le dinamiche tipiche del Partito democratico in questo ultimo ciclo elettorale ricordano da vicino quelle dello stesso partito nel 1968, quando nel tentativo di realizzare le sue ambizioni presidenziali, l’allora vicepresidente Hubert Humphrey si rivolse esclusivamente ai leader del suo partito, ai capi sindacali e ad altri insider, mentre tutti i suoi rivali attraversavano gli Stati Uniti in lungo e largo cercando di conquistare quanti più elettori possibile. Alla fine, l’approccio del vicepresidente Humphrey si dimostrò vincente tanto da essere nominato al primo scrutinio, mentre la convention divenne teatro di una battaglia che sfociò nell’intervento della Guardia nazionale.
Ormai ai nastri di partenza di una convenzione di partito in formato ridotto e comunque svuotata dalle circostanze di quella funzione di unico grande momento d’incontro e di negoziazione tra gli esponenti di realtà geografiche, economiche e sociali a volte anche molto diverse, l’impressione è che l’opinione del corpo elettorale sia stata di nuovo in buona parte ignorata, che di quel “potere al popolo” in nome del quale le elezioni primarie assunsero nel corso degli anni Settanta un’inedita importanza, sia rimasto poco. Oggi più che mai, forte è la tentazione di risolvere ogni analisi riguardante queste ultime primarie democratiche nel rapporto di ciascun candidato con l’establishment, vale a dire con quel variegato insieme di attori cui a suo tempo decise di rivolgersi l’ex vicepresidente Humphrey.
Da parte loro, l’ex vicepresidente Joe Biden e la senatrice Kamala Harris soddisfano i requisiti dell’establishment democratico più di qualsiasi altro candidato, tanto che si potrebbe dire che ne rappresentano la quintessenza. Tuttavia, per vincere le elezioni presidenziali di quest’anno, la leadership democratica si è resa ben conto di aver bisogno anche di quella sinistra progressista per molti versi estranea alle logiche del proprio partito. Ne consegue che non potendo seppellire l’universo progressista, il Partito democratico ha dovuto prima seppellire il senatore Bernie Sanders per poi scegliere l’ex vicepresidente Biden, confidando che, da presidente, il suo pedigree politico finirà inevitabilmente con lo spingerlo al centro. In breve, il ticket Biden-Harris significa che l’establishment ha vinto un’altra battaglia, proprio come con la senatrice Hillary Clinton nel 2016. Resta da vedere se vincerà anche la guerra.
Di certo il ticket Biden-Harris, celebrato in questa convention, non farà molto per ridurre quello che con tutta probabilità rappresenta il problema più serio nel quale si dibatte il sistema politico statunitense, vale a dire l’enorme livello di polarizzazione di questi ultimi anni. Un problema questo reso ancora più serio dal fatto che l’organizzazione istituzionale statunitense non è progettata per gestire efficacemente un Paese così profondamente diviso. Più in particolare, per quanto riguarda la scelta del vicepresidente, vale la pena di ricordare come nel dicembre dello scorso anno, la senatrice Harris ha sospeso una campagna elettorale che pure era stata lanciata con grande clamore, perché evidentemente incapace di convincere l’elettorato dell’opportunità di una sua candidatura, che continuava a oscillare solo tra il tre e il sei per cento. Già all’inizio dell’autunno scorso, era infatti abbastanza chiaro che la senatrice Harris non era riuscita a entrare in risonanza neppure con l’elettorato afroamericano del Nevada e della Carolina del Sud, mentre le stava andando davvero male anche nel suo Stato, una California dove, se non si fosse ritirata per tempo, sarebbe andata incontro a una umiliante sconfitta per mano del senatore Sanders.
L’unico momento luminoso della campagna elettorale della senatrice Harris è lo scontro televisivo con l’ex vicepresidente Biden su una questione che risale alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta, di cui non interessa più nulla a nessuno, tranne forse che a pochi appassionati di storia. In quell’occasione, la senatrice Harris dimostrò che a separarla dall’ex vicepresidente Biden non c’era solo una divergenza politica, ma un completamente diverso e distante stile di proporsi in pubblico, perché la senatrice Harris si scagliò contro l’ex vicepresidente con una tale aggressività che sono in molti oggi a chiedersi come diavolo abbia fatto quest’ultimo a scegliere proprio lei per la vicepresidenza.
Oltre a un carattere non particolarmente carismatico, un ruolo ancora più importante nel condannarne le ambizioni elettorali lo ha svolto la sua spiccata tendenza a ondeggiare opportunisticamente sulle tante possibili politiche da implementare in una sua amministrazione. Solo per fare un esempio, la senatrice Harris ha prima fatto proprio quel programma di assistenza sanitaria universale, destinato, tra le altre cose, a fare piazza pulita di ogni assicurazione privata, che ha costituito il vero cavallo da battaglia del senatore Sanders, solo per poi rifiutarlo repentinamente. Un altro più che evidente limite della sua candidatura è identificabile in un’esperienza professionale ovviamente rivendicata durante l’intera sua campagna elettorale, sebbene in stridente contrasto con ampi settori di un elettorato che di tutto sembra sentire il bisogno tranne che di qualcuno che da procuratore si è distinto per la grande severità riservata a tanti fratelli e sorelle di colore. L’anno scorso, durante il dibattito di luglio, proprio per via della sua esperienza professionale, la senatrice Harris è stata fatta a pezzi, ma a pezzi piccolissimi, dalla rappresentante Tulsi Gabbard, in quello che resta il momento più rimarchevole dell’intera stagione elettorale, e le cui parole sono riportate qui di seguito: “Ci sono troppi esempi da citare, ma lei [senatrice Harris] ha messo in prigione oltre 1.500 persone per uso di marijuana e poi, quando le è stato chiesto se avesse mai fumato marijuana, ha riso. Lei [senatrice Harris] ha bloccato le prove — ha bloccato le prove — che avrebbero liberato un uomo innocente dal braccio della morte fino a quando i tribunali non l’hanno costretta a farlo. Lei [senatrice Harris] ha tenuto in prigione persone oltre la loro pena, per usarle come manodopera a basso costo per lo stato della California. E lei [senatrice Harris] ha combattuto per mantenere in vigore un sistema di cauzione che impatta sui poveri nel modo peggiore”.
Da ministro della Giustizia dello stato di California, la senatrice Harris è poi riuscita ad attrarre l’attenzione dei media nazionali soprattutto per quella che è stata presentata come una “mancanza di rispetto e disprezzo radicale” per il Primo emendamento. Sotto questo punto di vista, l’episodio più emblematico è costituito dalla sua decisione di spiare e di fare irruzione nella casa di quel giornalista, David Daleiden, colpevole solo di aver denunciato le pratiche di raccolta e vendita di parti del corpo di feti abortiti di Planned Parenthood, l’organizzazione non-profit filo democratica più di ogni altra impegnata nel controllo delle nascite. Per poi non parlare di quella disposizione di legge, da lei sostenuta e implementata, che ha portato all’arresto di tanti genitori i cui figli abitualmente marinavano la scuola. Disposizione di legge nei confronti della quale lei stessa ha recentemente espresso più di qualche rimorso. Da ultimo, la sua candidatura alla vicepresidenza ha avuto l’effetto di riaccendere l’estremamente controversa questione sulla definizione legale di chi è un cittadino per nascita, e di chi lo è per naturalizzazione, e quindi di quali diritti spettano all’uno e di quali all’altro, perché secondo un editoriale pubblicato a firma del giurista John Eastman dal settimanale Newsweek, la senatrice Harris potrebbe non essere idonea a ricoprire la carica di presidente e, forse, neppure quella di senatrice, se al momento della sua nascita lo status legale dei suoi genitori era, come sembra probabile, quello di visitatore temporaneo “con visto di studio emesso ai sensi della sezione 101 (15) (F) del titolo I della legge sull’immigrazione del 1952 “.
Concludendo, per quanto sia in genere probabilmente sbagliato attribuire una grande importanza alla scelta della senatrice Harris, perché quella del vicepresidente non si è quasi mai rivelata una scelta determinante, quest’anno è d’altra parte diffusa la convinzione che la scelta del compagno di corsa dell’ex vicepresidente Biden avrebbe dovuto favorire una fruttifera convergenza tra i moderati di centro e quella sinistra progressista che cinque anni fa si è coagulata intorno al senatore Sanders proprio in contrapposizione all’establishment democratico. Sotto questo punto di vista, nessuno meglio di Cenk Uygur, il creatore di The Young Turks, un programma di notizie e opinioni politiche su YouTube ritrasmesso da diversi canali televisivi, ha riassunto in poche ma efficaci parole le emozioni del fronte progressista di fronte alla scelta della senatrice Harris: “Et voilà… eccoci qui, non ha vinto abbastanza voti, non ha condotto una campagna abbastanza buona, ma quello che l’establishment voleva, l’establishment l’ha puntualmente ottenuto!”.