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Ecco perché in Libia è tutto fermo. L’analisi di Ruvinetti

Lo stallo prosegue in Libia, dove all’indomani del cessate il fuoco (la cui solidità è direttamente proporzionale all’affidabilità di Khalifa Haftar sulle sue reali intenzioni di pacificazione), il processo politico appare più incerto che mai. Specie alla luce delle recenti proteste che hanno animato nei giorni scorsi la capitale e a cui ha fatto seguito il siluramento di Fathi Bashaga, con la successiva indagine avviata a carico del ministro degli Interni di Tripoli per il suo presunto ruolo sul sostegno alle dimostrazioni stesse. Un elemento che accresce il generale quadro di incertezza sul dialogo intra-libico.

Già in questa sede avevamo sottolineato come il cessate il fuoco imposto di fatto da Turchia e Russia, con l’avallo dell’Egitto che (per fortuna) non ha velleità belliche, sia ancora orfano della riapertura dei pozzi petroliferi divenuta una cronica patologia per il Paese sia in termini di perdite economiche (per le mancate entrate dei proventi), sia da un punto di vista sociale (per le ricorrenti interruzioni nella fornitura di energia elettrica con prolungati blackout nel periodo più caldo dell’anno). Anche il dialogo istituzionale non sembra riuscire a superare una fase di stallo sebbene dei passi in avanti siano stati compiuti negli ultimi giorni, come le dichiarazioni di Fayez al-Serraj, il presidente del Governo di accordo nazionale (Gna) sostenuto dalle Nazioni Unite, e del numero uno del Parlamento di Tobruk, Aghila Saleh, per un cessato il fuoco duraturo e la ripresa del dialogo. Tutto questo però sembra purtroppo non bastare. 

La presa di posizione di Saleh, con l’avallo degli egiziani, è sicuramente un importante passo in avanti nella giusta direzione che di fatto tende ad isolare Haftar, ma non sufficiente ad imprimere una spinta reale per una vera ripresa del percorso politico. La concertazione, ben inteso, è stata accolta con soddisfazione da Onu, Usa, Lega Araba, Italia e Germania, ma trova un suo primo limite nella progettazione politica del Paese. Mentre Serraj parla di elezioni a marzo, Saleh punta a emendare gli accordi costitutivi di Skhirat e formare un nuovo Consiglio presidenziale di tre membri, uno per ogni regione (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan) e con sede provvisoria a Sirte. A questo si aggiungono le incertezze sulla ripresa della produzione petrolifera i cui proventi dovrebbero essere depositati in un conto speciale della Noc (autorità petrolifera nazionale) presso la Libyan Foreign Bank. Dopo tanti sforzi profusi dagli americani per far ripartire la produzione di petrolio e dopo due dichiarazioni “capestri” di riapertura dei pozzi da parte di Haftar la produzione non è ancora ripartita. 

A che gioco sta giocando il generale? Per riavviare un vero dialogo politico e per ripartire con la produzione di petrolio bisogna superare il veto degli Emirati i quali continuano a supportare il loro “cavallo”, cioè Haftar, su cui hanno puntato molti soldi in vista di una sua entrata trionfante a Tripoli. E, nonostante questa non sia arrivata e a questo punto mai arriverà, per ora non intendono mollarlo. L’uomo forte della Cirenaica è stato invece messo in disparte dal Cairo, che ha individuato in Saleh il nuovo interlocutore di riferimento, così come i francesi, che lo hanno sempre sostenuto ufficiosamente, stanno cercando di prendere le distanze. Parigi ha compreso che il generale è divenuto ormai impresentabile di fronte alla comunità internazionale, inoltre non è più possibile definirlo “uomo forte” dopo il fallimento della marcia su Tripoli e infine le sue milizie si sono tacciate di diversi crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. Eppure, in questo momento nessuno degli attori internazionali che hanno un ruolo sullo scacchiere libico ha la forza negoziale da imporre agli Emirati di mollare Haftar. 

Gli unici realmente in grado di compiere un’operazione di questo tipo sono gli Stati Uniti, ma con l’amministrazione Trump il rapporto tra Emirati e Usa è solido, ne è un esempio l’accordo firmato tra Emirati ed Israele un accordo storico voluto fortemente da Trump. Gli americani ben si guardano dallo sposare linee impositive agli emiratini, specie sul loro sodalizio con Haftar e di questo la monarchia del Golfo ne è conscia tanto da consentire ad Haftar di tenere bloccata la situazione in Libia e a respingere tutti gli appelli e le pressioni che vengono dalla comunità internazionale. Questo scenario potrebbe cambiare nell’ipotesi che il 3 novembre le elezioni americane decretassero la vittoria di Joe Biden, in quel caso i rapporti di forza tra Abu Dabi e la nuova Casa Bianca a guida democratica potrebbero cambiare dando modo all’amministrazione Usa di convincere gli emiratini a mollare Haftar cosa che permetterebbe di aprile una volta per tutte i rubinetti petroliferi, sbloccare realmente lo stallo libico e, forse, individuare a una prospettiva di accordo politico per riunire il Paese. 


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