In un momento difficile come l’attuale, è bene continuare a parlare di giovani e futuro, senza smettere di avere uno sguardo di progettualità concreta. Anche ora, più che mai. La ricostruzione post Covid-19 deve diventare l’occasione per rinnovare in profondità l’Italia e il popolo italiano. Ne parliamo con Fabio Storchi, Presidente Unindustria Reggio Emilia.
Nel corso della tua vita sei stato sempre un innovatore. Hai contribuito a realizzare l’Università di Reggio Emilia, sei stato Presidente di Federmeccanica. Quali sono oggi gli elementi caratterizzanti del tuo mandato da Presidente di Unindustria?
La mission di Unindustria Reggio Emilia nell’Area Innovazione è quella di accompagnare le Associate in un percorso di trasformazione digitale riferito tanto all’innovazione dei processi produttivi quanto all’innovazione di prodotto e dei modelli di business. La crescita della cultura digitale, lungo le filiere produttive, è perseguita attraverso azioni di formazione e di orientamento verso le nuove tecnologie, anche sfruttando le sinergie con le reti regionali e nazionali dei Digital Innovation Hub e dei Competence Center istituiti dalla legge Industria 4.0.
Quali sono le iniziative che state implementando?
Il piano di medio termine prevede la realizzazione – presso il Parco dell’Innovazione nell’area Ex Reggiane – di un Polo di Eccellenza Digitale destinato a diventare il luogo dell’open innovation e della cultura digitale. Nella medesima area è previsto anche l’insediamento del quarto polo universitario di Unimore specializzato nell’istruzione universitaria avanzata dedicata al digitale.
A oggi abbiamo predisposto diversi progetti che contiamo di realizzare nei prossimi mesi. Mi riferisco al Laboratorio Stem and Robotics per avvicinare i giovani delle scuole elementari, medie e superiori alla Robotica, alle materie Stem e alle tematiche dell’Industria 4.0.
Penso al progetto Human & Technology Training Center, gestito dalla nostra scuola di formazione CIS, in partnership con i leader internazionali della formazione digitale, per l’attivazione di un articolato percorso formativo professionalizzante ed executive in tema di competenze digitali.
Ricordo, infine, il progetto Manufacturing and Automation Center of Excellence (MACE) – realizzato in partnership con Comau – per la creazione di una “learning factory” ovvero, il prototipo della fabbrica del futuro dove saranno allestite cellule tecnologiche che utilizzano l’automazione, la robotica, l’informatica e il digitale (Internet of Things) per una manifattura evoluta, di qualità e dunque sempre più competitiva.
Questa spirale innovativa, può essere diffusa e replicata a livello nazionale?
Ritengo che il nostro possa diventare un modello di riferimento capace, questo è il mio auspicio, di ispirare sia le imprese dell’intero territorio nazionale, sia la collaborazione tra scuola, università e impresa che dovrà essere rilanciata il più rapidamente possibile.
Cosa c’è di più utile e interessante che organizzare e progettare gli insegnamenti e la formazione delle competenze tenendo conto delle esigenze del mondo del lavoro?
A Reggio Emilia abbiamo già sperimentato questo percorso con l’avvio, nell’anno accademico 2019-2020, del corso di laurea triennale in Digital Marketing, prima realizzazione nel nostro Paese, co-progettato, cogestito e co-finanziato da Unimore e Unindustria. Un risultato per noi significativo che tuttavia non deve farci dimenticare che in Italia abbiamo la percentuale più bassa di laureati tra 25-34 anni. Un dato molto grave che ci pone in condizione di svantaggio rispetto agli altri Paesi europei.
Come possiamo recuperare questo gap?
Reggio Emilia è una delle due sedi della Università di Modena e Reggio Emilia (Unimore). Dal 2017 a oggi il numero dei nuovi iscritti ai corsi di laurea è aumentato di oltre il 20%, vale a dire ben oltre la media degli iscritti alle Università italiane. Il nostro ateneo, nell’attuale configurazione a rete di sedi, è nato recentemente, nel 1998. Abbiamo il vantaggio di poter collaborare con giovani docenti che ogni giorno pensano al futuro dei nostri talenti confrontandosi con le necessità formative delle imprese e del territorio in cui esercitano la loro vitale e insostituibile missione.
La situazione economica che stiamo vivendo è senza precedenti e i dati del PIL comunicati dall’Istat pochi giorni fa lo dimostrano. Tra le aziende associate a Unindustria Reggio Emilia che cosa prevale tra l’ottimismo e la preoccupazione?
Veniamo da mesi difficili e deprimenti perché i provvedimenti presi dal Governo – per il lock-down prima e successivamente attraverso i diversi DPCM che si sono succeduti – sono andati nella direzione opposta alla costruzione di un clima di fiducia, elemento, quest’ultimo, indispensabile per alimentare la speranza in un futuro migliore. Il clima è depresso, molte imprese soffrono, l’esportazione, che è una componente fondamentale del nostro sistema produttivo, è penalizzata dalla pandemia e dal conseguente rallentamento del commercio mondiale. Un dato che ci penalizza in tempo reale.
I dati della produzione industriale e del fatturato dal primo gennaio a fine giugno 2020, confermano un calo di circa il 20% rispetto al pari periodo del 2019. Tuttavia, negli ultimi giorni, abbiamo intravisto segnali positivi, penso alle decisioni prese dal Consiglio Europeo sul Recovery Fund. La scelta di finanziare i Paesi maggiormente colpiti dalla pandemia e di assegnare all’Italia una quota significativa di questi fondi, pari a 209 miliardi, ci consente di guardare avanti con maggior fiducia.
Negli ultimi mesi si sente parlare sempre più di re-shoring e de-globalizzazione. Ritieni che questi fenomeni possano favorire una crescita dei nostri distretti industriali e la valorizzazione della nostra manifattura più evoluta?
Probabilmente questa sarà l’evoluzione naturale in numerosi settori. La globalizzazione che abbiamo conosciuto negli ultimi due decenni nei prossimi anni vedrà un consistente ridimensionamento. Siamo all’inizio di un processo di regionalizzazione che porterà le produzioni industriali in prossimità dei mercati di sbocco e degli utilizzatori finali. Si delineano grandi aree o “regioni”, le prime tra queste sono l’Asia, l’Europa e le Americhe.
Ma non si tratta solo di filiere lunghe, di guerre commerciali o di una nuova “Guerra Fredda” tra USA e Cina, la crisi sanitaria e la pandemia, hanno concorso a mettere in evidenza le criticità delle produzioni de-localizzate in estremo oriente, mi riferisco tanto alle mascherine e ad altri dispositivi sanitari, quanto alle componenti necessarie per completare molte nostre produzioni in diversi ambiti merceologici. Due gravi elementi di criticità dipendenti esclusivamente dal trasferimento di queste produzione in Asia e in Cina in particolare.
Dobbiamo riflettere, oggi più che mai è indispensabile passare da un processo di esportazione a un processo di internazionalizzazione. Se le aziende vogliono continuare a servire il mercato estero, devono organizzarsi per produrre in prossimità dei clienti, con gli ingenti investimenti che questo comporta. Il processo di re-shoring va gestito quindi con grande attenzione: da una parte può offrire opportunità di sviluppo dall’altra potrebbe rappresentare una minaccia per le miriadi di PMI che esportano i loro prodotti nel mondo
La crisi ha accentuato il divario tra Nord e Sud. Si parla sempre più spesso di south working. Sei favorevole a questa ipotesi?
Il Sud rimane una questione nazionale aperta. Concordo con i politici e con gli economisti che evidenziano l’impossibilità di rinnovare e rilanciare il Paese senza dare soluzione alla crisi del Mezzogiorno. In questi anni sono state realizzate politiche incoerenti con le specificità dei territori e oggi ne paghiamo le conseguenze.
In ogni caso dobbiamo diffidare del nuovo storytelling che racconta il Mezzogiorno come un luogo vocato solo al turismo e all’agricoltura. Certo si tratta di due settori importanti e costitutivi dell’identità del Made in Italy e dello “stile di vita italiano”, ma l’industria rappresenta l’elemento indispensabile per creare valore, per distribuirlo e per determinare condizioni durature di sviluppo, di riscatto sociale e di coesione.
Dobbiamo in ogni modo impegnarci per favorire un rapporto di reciprocità e di intelligenza combinatoria tra il settentrione e il meridione. Ad esempio, non dobbiamo sottovalutare né il valore, anche simbolico, che l’ex Ilva di Taranto rappresenta in una parte del Paese priva di un vero sistema industriale, né la sua insostituibile funzione strategica per il Paese. I precisi riferimenti geografici che ho fatto ci devono ricordare il nuovo paradigma della rivoluzione digitale che sta eliminando ogni distinzione tra centro e periferia, tra città e aree interne e, tanto più, tra Nord e Sud. Dobbiamo comprendere e fare tesoro di questa nuova dimensione.
Nell’agenda politica negli ultimi anni sono mancate le politiche attive nei confronti dei giovani. Siamo il secondo Paese più vecchio al mondo. Ci sarà un punto di rottura oppure bisogna ripensare a un patto fra generazioni?
Il nostro Paese, al di là di annunci propagandistici privi di sostanza, non ha mai fatto politiche attive né per la famiglia, né per i giovani e neppure per gli anziani. È questo il motivo per il quale una persona che perde il lavoro in Italia è destinata a non trovarlo mai più, soprattutto, se di età superiore ai quarant’anni. I nostri talenti emigrano perché in Italia non ci sono le condizioni per rimanere, emanciparsi e crescere socialmente. Questo è un problema antico che ci portiamo sul groppone da troppi anni.
In un mondo in continua trasformazione, dove l’innovazione gioca un ruolo rilevante per il successo o l’insuccesso di una organizzazione o di un Paese, non poter fare affidamento sui giovani talenti, che sono gli inventori per definizione, può risultare esiziale per il futuro della economia e del Paese.
Che significato ha in tutto ciò l’impegno nazionale per il superamento della crisi post Covid-19?
La ricostruzione post Covid-19 deve diventare l’occasione per rinnovare in profondità l’Italia e gli italiani. Dobbiamo iniziare da subito a progettare e a realizzare la rigenerazione e il rilancio di un Paese e di un popolo – capaci di performance straordinarie – che da troppi decenni paiono aver rinunciato alla crescita, alla produttività e alla competizione con un mondo che vive un’accelerazione impressionante.
Un obiettivo che non deve spaventarci e per il raggiungimento del quale dobbiamo metterci subito in cammino. Dobbiamo farlo tenendo presente che non è mai il cammino ad essere difficile, ma, al contrario, sono proprio le difficoltà che incontriamo lungo la strada che ci aiutano a crescere e a costruire giorno, dopo giorno il nostro futuro. Dalle sofferenze e dalla crisi di questi drammatici mesi può e deve nascere una nuova coesione fondata sull’orgoglio e sulla consapevolezza di essere una comunità in grado di dare risposte a tutte le generazioni, nessuna esclusa. Questo impegno corale ha un nome, si chiama Rinascita ovvero, l’obiettivo che l’Italia del 2020 deve avere la forza, l’orgoglio e la determinazione di darsi.