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In democrazia non si vince né si perde. Paganini spiega perché

Non si può ridurre la politica all’alternativa si vince o si perde. Affermare che un movimento o partito politico ha vinto le elezioni è sbagliato perché polarizza la partecipazione attorno a idee fisse che sopprimono la libera scelta dei cittadini e rallentano la coltivazione di soluzioni nuove (da verificare) ai problemi della convivenza umana.

È quanto stiamo sperimentando in questa fase storica, in cui persino alcuni liberali (quelli sedicenti) hanno abbandonato il metodo sperimentale preferendogli l’omologazione conformista di idee che il tempo ha reso inconsistenti. Le idee prevalgono naturalmente attraverso le scelte libere dei cittadini, i quali sono gli unici vincitori o perdenti a seconda di come funzionano le scelte da loro fatte.

Nelle democrazie rappresentative – o parlamentari – come l’Italia, le aspettative e le esigenze di noi cittadini cercano rappresentanza nelle idee e nei progetti che i movimenti politici elaborano proprio per rispondere alle nostre richieste.

Le proposte politiche che riassumono idee e progetti sono in concorrenza tra di loro. La maggiore concorrenza riflette e genera allo stesso tempo una maggiore diversità. L’obiettivo è quello di rappresentare al meglio le diversità nell’affrontare i problemi della società. Per questo servono leggi elettorali che garantiscono una maggiore espressione della diversità, sia ampliando qualitativamente la partecipazione in Parlamento, sia allargando l’offerta dei movimenti politici per includere – ma non omologare – le diversità dei progetti tra cui scegliere (perché la rappresentanza vive di scelte).

Occorrono anche, oltre al Parlamento, spazi di confronto dove le diversità possono esprimersi per generare progetti politici.

In questo contesto non ci sono vincitori o vinti, ma progetti che prevalgono e in cui i cittadini confidano. La fiducia dei cittadini implica responsabilità. Infatti, vincitori e vinti saranno i cittadini, una volta che chi li rappresenta sarà riuscito o meno a realizzare quei progetti e quindi ad incrementare la libertà e la prosperità di ciascun individuo.

È perciò profondamente sbagliato concorrere per vincere e basta; così come è pericoloso annunciare un vincitore; e persino immaturo festeggiare. La vittoria presuppone la sconfitta altrui.

In democrazia non è così. Nessuno è sconfitto, se non i cittadini una volta che i progetti in cui si sono affidati hanno fallito. In democrazia si concorre per far prevalere dei progetti che siano tanto rappresentativi quanto capaci di rispondere alle diverse esigenze di noi cittadini. Questo atteggiamento, risponde ad un preciso metodo sperimentale, il cui obiettivo è quello di sperimentare soluzioni sempre nuove e aderenti al passare del tempo.

La cultura del vincitore e vinto non si affida ad un metodo, ma si rifugia in idee fisse che non mutano e che hanno il solo obiettivo di risultare vincitore nel voto, non nel funzionamento del progetto. Così i problemi da risolvere non sono più il fine, ma lo strumento attorno al quale raccogliere i cittadini. Risultare vincitori nel voto è il fine. Da qui nasce la polarizzazione che stiamo vivendo: i cittadini si arroccano su idee immobili pur di vincere contro chi è diverso. La diversità non è una ricchezza a cui attingere, ma un nemico da sopprimere.

La terminologia non è accidentale, ha radici culturali. Sono i media e soprattutto i social media ad irrigarle. I termini vincere o perdere sono usati per semplificare il concetto di prevalenza, ma è un errore, non è casuale. È culturale, appunto: secondo la logica storicista per cui un’idea vince sulle altre che a loro volta sono vittime della prima a cui tutti si omologano. Solo una rivoluzione farà crollare la prima per insediare l’alternativa.

Usare la narrazione rivoluzionaria è più semplice da digerire cognitivamente, perché ci spinge verso un’idea rifuggendo l’altra e i suoi sostenitori. Utilizzando uno schema molto semplice: giusto o sbagliato, bianco o nero, ecc. Il vincitore raccoglie ammirazione e disprezzo, e così il vinto. È un modello che polarizza i cittadini inibendo la tolleranza e quindi il riconoscimento della diversità e di soluzioni alternative ai problemi che esistono.

In questo quadro, la democrazia rappresentativa risulta debole perché il cittadino preferisce soluzioni semplici e chiare (seppure prive di prospettiva verso il futuro) alle dinamiche complesse del conflitto democratico. E quando finisce l’effetto demiurgico della polarizzazione (per esempio, durante una crisi economica) si ricorre alla rivoluzione che, nuovamente, ripete il processo di polarizzazione.

Non ci può essere un avanzamento di conoscenze senza un conflitto costante, perché le rivoluzioni rinnegano quanto prodotto in precedenza, per sostituirlo con presunte novità. Presunte novità perché non rispondono alla sperimentazione quotidiana, tipica del conflitto democratico, ma ripropongono in forme diverse gli stessi contenuti.

E così, come sta succedendo, restiamo appesi a vecchi schemi ostili tra loro, per affrontare ciò che di nuovo il mondo ci presenta.
È urgente abbandonare questo schema rigido per tornare al conflitto democratico. Solo i liberali possono spingere questo cambiamento. Ma in troppi, contraddicendo il liberalismo, sono rimasti attaccati al passato, ostili al presente, non sforzandosi di comprendere cosa sta avvenendo.


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