Settantacinque anni fa il mondo assisteva alle macerie di Hiroshima, destinato nel giro di due giorni a osservare anche quelle di Nagasaki. Con il primo tragico uso dell’arma atomica (si stimano 200mila vittime dirette), gli Stati Uniti piegavano l’orgoglio giapponese, chiudendo il secondo conflitto mondiale e dando avvio all’era nucleare. Da allora, l’arma per eccellenza non è più stata utilizzata, ma è rimasta protagonista della storia globale, fungendo da “controllore” inconscio del confronto bipolare. Oggi che quel confronto non c’è più, nuovi scenari si affacciano all’orizzonte tra ascesa cinese, tecnologie spaziali e missilistica ipersonica. Ma siamo sicuri che un mondo senza armi nucleari sarebbe più sicuro?
Secondo storici ed esperti, è stata l’arma nucleare a garantire la stabilità sistemica della Guerra fredda, a dare prevedibilità ai rapporti tra i due grandi competitor e ad evitare, in sintesi, una guerra “calda” di portata mondiale. Tutto grazie al concetto di Mad, acronimo di Mutually Assured Destruction. In sintesi, entrambi i contendenti erano consapevoli che uno scambio nucleare avrebbe portato all’annichilimento reciproco. Confidando nella ragionevolezza dell’altro, si potevano dunque sviluppare i rapporti bilaterali, altalenanti certo, ma spesso proficui. È così che è nato il sistema di controllo degli armamenti, tra trattati e accordi che ancora garantiscono un’architettura di sicurezza tutto sommato soddisfacente.
Oggi gli scenari sembrano mutati. Sono nove i Paesi nucleari, cinque ufficiali (Usa, Russia, Regno Unito, Francia e Cina) e quattro meno (India, Pakistan, Israele e Nord Corea). Secondo l’autorevole istituto svedese Sipri, all’inizio del 2020 le testate nucleari in circolazioni ammontavano a 13.400, circa 460 in meno rispetto all’anno precedete, in linea con una diminuzione costante degli ultimi anni. Di queste, 3.720 sono dispiegate su forze operative, di cui 1.800 in stato di “alta allerta operative”. Il 90% resta nelle mani di Stati Uniti e Russia, altresì protagoniste della riduzione degli arsenali, rispettivamente con un totale di 5.800 testate e 6.375.
Fino al 2018, la riduzione è stata dettata dagli impegni assunti tra i due con il trattato New Start. Siglato da Barack Obama e Dmitrij Medvedev nel 2010, ha sostituito i precedenti Start I, Start II e Sort, fissando a 1.550 il limite di testate nucleari per le due superpotenze e a 700 il massimo di vettori nucleari dispiegati contemporaneamente (tra velivoli, missili e sottomarini). Entrato in vigore il 5 febbraio del 2011, ha una durata decennale e può essere prorogato per non più di cinque anni. La scadenza è ormai imminente; i negoziati per il rinnovo sono iniziati e il loro esito resta incerto.
A guardare l’ultimo anno, la sopravvivenza del New Start non è certo scontata. Lo scorso maggio, gli Stati Uniti hanno ufficializzato l’uscita dagli accordi Open Skies che, in vigore dal 2002, autorizzano gli Stati-parte a condurre voli di osservazione disarmati sui territori degli altri Paesi che vi hanno aderito (in tutto 35). Citando diverse violazioni russe e spiegando che i “cieli aperti” non rispondono più agli interessi americani, l’amministrazione targata Donald Trump ha ufficializzato la decisione statunitense di uscire in sei mesi. Dinamica simile a quella occorsa lo scorso anno sul trattato Inf, che vietava il dispiegamento a terra di armi nucleari a medio raggio, ossia quelle con una gittata tra i 500 e i 5.500 chilometri.
Non è un segreto che sulla progressiva demolizione del sistema di controllo degli armamenti ci sia una convergenza di interessi tra Stati Uniti e Russia, piuttosto svogliati nel prorogare impegni reciproci che li vincolano rispetto al resto del mondo e, in particolare, rispetto all’ascesa cinese in campo nucleare. Nel 2019, il “Pentagon’s 2019 China Report” redatto dalla Federation of American Scientists, ha stimato per il Dragone una disponibilità di circa 290 testate nucleari. Secondo Sipri, sono oggi 320. Un paio di mesi fa, mentre gli Usa discutevano sull’uscita da Open Skies, Hu Xijin, direttore di Global Times (il tabloid a diffusione mondiale del Partito comunista cinese) invitava il governo ad aumentare il numero di testate nucleari fino a mille e di arrivare a una disponibilità di almeno cento DF-41, missili balistici intercontinentali ritenuti capaci di raggiungere Europa e Stati Uniti in circa 30 minuti, trasportando fino a dieci testate indipendenti, convenzionali o nucleari, con lancio da silo o da base mobile.
È per questo che Washington preme da tempo per inserire Pechino ai tavoli dei negoziati. Per ora sono pervenute solo risposte negative, ed è questo tra gli elementi di maggiore incertezza sul futuro del New Start. Secondo l’ambasciatore Stefano Stefanini, già rappresentante d’Italia alla Nato (e tra i firmatari di una lettera che chiede il rinnovo del trattato), alla fine Usa e Russia potrebbero concordare “sull’estensione per un periodo limitato, ad esempio un paio d’anni, con l’impegno a portare al tavolo anche Pechino”. Ci vorrà però tutto il peso della comunità internazionale per vincere l’impermeabilità cinese ed evitare la fine del sistema di controllo sugli armamenti nucleari.
Anche perché il progresso tecnologico e la dottrina in materia non si arrestano. A inizio giugno, il presidente Vladimir Putin ha siglato un documento dal titolo “Fondamenti della politica statale nel campo della dissuasione nucleare”. È la base di partenza per la nuova strategia di Mosca nel campo della deterrenza e introduce due nuovi casi in cui Mosca può far ricorso al “primo uso” dell’arma atomica: un attacco avversario (anche convenzionale) che generi “un impatto su importanti infrastrutture critiche, militari o governative”, e nel caso in cui ci siano “affidabili informazioni” di imminente attacco balistico ai danni della Russia o di suoi alleati.
A livello tecnologico, il lavoro principale è sulle armi nucleari a bassa intensità (o “low-yield”), tra le priorità Usa nella Nuclear Posture Review del 2018, ritenute un elemento-chiave per poter mantenere credibile la deterrenza nucleare. Per i sostenitori di tale concetto, avere in dotazione esclusivamente testate molto potenti abbassa la credibilità del loro impiego, riducendo inoltre i margini per una “risposta proporzionata” in caso di attacco da avversario con testata a potenziale ridotto. Tale approccio ha comunque anche diversi detrattori, secondo cui la difficoltà a riconoscere la tipologia di testata potrebbe portare l’avversario a scatenare comunque una rappresaglia violenta. Il dibattito è andato in scena negli Usa sul programma W76-2 per la US Navy, variante della testata usata tradizionale sul missile Trident dai sottomarini nucleari americani.
Sempre sul piano tecnologico, il documento “nucleare” firmato da Putin a giugno attesta tra le altre cose anche l’allargamento della deterrenza oltre l’atmosfera. Un messaggio non lanciato nel vuoto. Un paio di settimane fa, Regno Unito e Stati Uniti hanno denunciato, quasi in contemporanea, il test russo su una nuova arma: un “projectile” lanciato da un satellite. Le prospettive di “guerre stellari” non sono più fantascienza, con capacità Asat (anti-satellite) ormai dimostrate da almeno quattro Paesi (Usa, Russia, Cina e India) e scenari di confronto che causerebbero danni inimmaginabili su infrastrutture da cui dipende gran parte della nostra vita. A ciò si aggiungono gli sviluppi nel campo della missilistica ipersonica, ritenuta un “game changer” nei futuri scenari operativi, un campo in cui gli Stati Uniti stanno cercando di recuperare il ritardo maturato rispetto a Cina e Russia.
Come notato da David Von Drehle in un editoriale sul Washington Post, più che sull’eliminazione dell’arma nucleare ci si dovrebbe concentrare su come conviverci con canoni differenti rispetto alla Guerra fredda. Andrebbero riadattati al contesto odierno i trattati di non-proliferazione e di controllo, allargandoli poi alle nuove tecnologie tra spazio, ipersonica e cyber. L’obiettivo è restituire al sistema internazionale prevedibilità e fiducia reciproca. Mentre gli armamenti evolvono, la mutua distruzione totale resta il presupposto di ogni difesa, basata sulla deterrenza. D’altra parte, non sono certo le tecnologie a causare le guerre. Nel 1994, i cento terribili giorni del genocidio del Ruanda fecero registrare all’incirca 800mila vittime. Non furono droni, missili o armamenti di ultima generazione, ma machete, bastoni chiodati e armi leggere.