“Schmerzhaft”, cioè doloroso. Così la ministra tedesca della Difesa Annegret Kramp-Karrenbauer ha definito l’annunciato piano di ritiro di circa dodicimila soldati americani dalla Germania. Oltre i rapporti transatlantici, la mossa di Donald Trump rischia di dividere la Grosse koalition guidata da Angela Merkel, con i socialdemocratici dell’Spd all’attacco sugli armamenti nucleari americani, e la Cdu che si muove per preservare il legame con Washington e che rilancia (con molte incognite) la Difesa europea.
LE PAROLE DEL MINISTRO
“Per decenni, i militari delle Forze armate statunitensi di stanza qui in Germania hanno rappresentato l’amicizia transatlantica tra i nostri due Paesi”, ha scritto via Facebook la ministra. “La loro partenza sarebbe dolorosa e influenzerebbe anche la popolazione locale; discuterò quindi con i governatori degli Stati federali colpiti dall’annunciato ritiro delle truppe su come la Bundeswehr possa sostenere le regioni”, ha aggiunto Akk. Poi l’affondo sulla Difesa europea: “Vivere bene in Germania e in Europa dipende sempre più da come noi stessi garantiamo la nostra sicurezza”. Dunque, ha rimarcato la ministra, “userò la presidenza tedesca del Consiglio dell’Ue per compiere finalmente progressi più rapidi sulla politica europea di sicurezza e difesa”.
I RAPPORTI CON WASHINGTON
Nelle prime righe si intravede il lavoro del governo tedesco a favore del mantenimento dei buoni rapporti con Washington. Anche a Berlino c’è d’altra parte consapevolezza che il ritiro sarà “pianificato nell’arco di mesi e attuato nell’arco di anni”, come spiegato dallo stesso Pentagono. Occorrerà passare dal via libera del Congresso e dai negoziati specifici con i singoli Paesi, tutto con il coinvolgimento della Nato, come promesso dal segretario Mark Esper. Nel frattempo, salvo sorprese, gli americani voteranno per il loro prossimo presidente (la mossa del ritiro va letta anche in chiave elettorale), e l’eventuale vittoria di Joe Biden potrebbe sovvertire il tutto. In ogni caso, in Germania resteranno 24mila militari americani, ragion per cui non è ipotizzabile una rottura completa tra Berlino e Washington nonostante i veri dossier di divergenza, dal rapporto con la Cina al Nord Stream 2. Il prossimo anno si terranno però anche le elezioni generali di Germania e i rapporti con gli Usa potrebbero finire nella campagna elettorale. Un assaggio è arrivato proprio negli ultimi giorni.
L’SPD ALL’ATTACCO
Con l’annuncio del Pentagono, i socialdemocratici dell’Spd (all’interno della Grosse koalition guidata da Angela Merkel) sono tornati a rispolverare la tradizionale insofferenza per la presenza militare Usa nel Paese, tema intrecciato al dibattito sulla sostituzione dei Tornado per la Luftwaffe (tra F-35, ormai esclusi, e il mixi di Super Hornet e Eurofighter che non piace a nessuno). Il capogruppo Spd al Bundestag Rolf Mützenich ha spiegato che, con il ritiro, “la cooperazione sugli armamenti dovrà essere valutata sotto un’altra luce”. A inizio maggio, Mützenich (con il supporto dei leader del partito) era tornato a promuovere il ritiro delle armi nucleari americane dal territorio tedesco, un sostanziale abbandono degli impegni di dissuasione presi da Berlino in ambito Nato.
IL FRONTE DELLA CDU
La proposta sembra destinata a montare ulteriormente, nonostante i tentativi di Cdu e Csu di affievolirla. Per il cristiano-democratico Roderich Kiesewetter, con un passato di dirigente alla Bundeswehr (le Forze armate di Germania) “non esiste finora un sostituto adeguato e conveniente” a quanto realizzato dalle aziende Usa. In più, ci sono da tenere in considerazione i “checks and balances” del sistema americano su Trump, ovvero l’insieme dei bilanciamenti che circondano l’azione del presidente in politica estera tra tutti gli apparati coinvolti. Dunque, per il collega di partito Henning Otte, i socialdemocratici non dovrebbero parlare di “ulteriore alienazione all’interno dell’Alleanza”.
UNA SPINTA PER LA DIFESA EUROPEA?
Poi, c’è il dibattito esterno ai confini tedeschi. In tal senso, la parte politicamente più rilevante dell’intervento dell’Akk riguarda la spinta alla Difesa comune. Già a giugno, con le prime indiscrezioni sul ritiro Usa dalla Germania, gli esperti del Vecchio continente si erano interrogati sul punto: la mossa di Washington farà accelerare la Difesa europea? Judy Dempsey di Carnegie Europe aveva rivolto la domanda a dodici esperti delle relazioni transatlantiche. La risposta non è stata univoca, ma tendenzialmente è emersa la convinzione che il futuro della Difesa europea dipenda solamente dalla convinzione politica che il Vecchio continente rivolgerà al dossier. In altre parole, la differenza la farà la volontà politica dei Stati membri e (soprattutto) la disponibilità a investire nel settore. Su questo secondo punto i segnali non sono incoraggianti.
LA QUESTIONE DELLE RISORSE
L’intesa sul Recovery Fund raggiunta un paio di settimane fa dal Consiglio europeo (connessa la braccio di ferro con i “frugali”) ha lasciato sul campo, tra le vittime eccellenti nell’ambito del prossimo quadro finanziario pluriennale dell’Unione (2021-2027), anche la Difesa. Per il Fondo europeo di Difesa (Edf) si prevedono 7 miliardi rispetto ai 13 proposti da Bruxelles. Per la mobilità militare, tema caro alla Nato, ce ne sono 1,5 miliardi (se ne prevedevano 6,5), mentre per la European Peace Facility dedicata alle missioni militari oltre i confini dell’Ue si è confermato il dimezzamento da 10 a 5 miliardi. L’auspicio di esperti e addetti ai lavori è che si possa tornare ad alzare l’asticella nei vari passaggi tra Parlamento e Consiglio, e su questo potrebbe davvero aiutare la presidenza tedesca, in combinazione con l’ex ministra della Difesa Ursula von der Leyen alla guida della Commissione. Berlino, insieme a Parigi e Roma, è da sempre tra i promotori del progetto della Difesa comune.