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Libano, cosa rischiano i militari italiani? Lo spiega il gen. Bertolini

“L’esplosione a Beirut potrebbe essere dovuta al caso, ma se parliamo dell’area più conflittuale del mondo, qualche dubbio è lecito; in ogni caso, non va trattata come un incidente, ma come una novità operativa che si inserisce in una situazione già complicata”. È il quadro del generale Marco Bertolini, grande conoscitore del Paese dei cedri, già comandante del Comando operativo di vertice interforze (Coi), del Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali (Cofs) e della Brigata paracadutisti Folgore.

Dopo il contributo alla lotta all’Isis in Iraq, la partecipazione a Unifil rappresenta il maggiore impegno italiano all’estero. Per il 2020, il Parlamento ha confermato un dispiegamento massimo di 1.076 unità. Due anni fa, il comando dell’intera missione è stato assegnato per la quarta volta all’Italia, nelle mani del generale Stefano Del Col, alla guida di oltre diecimila militari da 42 Paesi. Il quartier generale è a Naqoura, cento chilometri a sud di Beirut, al confine con Israele. Lì si concentra l’impegno italiano, nel “sector west”, in un’area che si estende per circa 55 chilometri lungo la linea di confine, tra il fiume Litani e la “blue line”. Un paio di settimane fa è cambiato il contingente italiano, con il generale Diego Filippo Fulco della Brigata Granatieri di Sardegna che ha ceduto il comando al collega Andrea Di Stasio della Brigata Sassari. Con lui si è collegato ieri il ministro Lorenzo Guerini per sincerarsi delle condizioni del contingente. Un militare italiano è rimasto lievemente ferito.

Generale, che idea si è fatto di quanto accaduto ieri a Beirut?

Anche se fosse un incidente, non dobbiamo trattarlo come tale, quantomeno per atteggiamento prudenziale. Quello che succede in quell’area del mondo lascerà conseguenze profonde su tutta una serie di conflittualità. Il Libano è in una posizione geografica delicata, stretto tra Siria e Israele. È soggetto a una crisi economica spaventosa, fino al default, accompagnata da un’altrettanto profonda crisi politica.

Ci spieghi meglio.

Lo scorso anno, Saad Hariri ha ceduto alle pressioni rassegnando le dimissioni come primo ministro, mai apprezzato nel ruolo da Israele e Arabia Saudita, avendo lui legittimano all’interno della “coalizione 14 marzo” Hezbollah e Amal, forze considerate ostili dai due Paesi. Ancora prima Hariri era stato addirittura rapito, poi liberato anche grazie all’intermediazione del presidente francese Emmanuel Macron. Lo scorso ottobre, con le manifestazioni di protesta che montavano in tutto il Libano, ha rassegnato le dimissioni. Al suo posto è arrivato Hassan Diab, sempre sostenuto dalla coalizione 14 marzo, ma comunque non in grado di eliminare la crisi al vertice della politica libanese. Lunedì scorso, il giorno prima dell’esplosione a Beirut, si è dimesso il ministro degli Esteri. Denota una crisi profonda che coinvolge economia, politica e sanità, visto che il Covid-19 sta facendo registrare circa 200 nuovi contagi al giorno impegnando le infrastrutture ospedaliere.

E la situazione militare?

Il problema militare è dovuto al confronto tra Israele ed Hezbollah. Nei giorni scorsi Israele ha colpito postazioni di Hezbollah a Damasco e sulle alture del Golan, azioni per cui Hassan Nasrallah, capo politico di Hezbollah, ha minacciato ritorsioni. Tramite l’Onu, Israele ha avvertito che, in caso di reazione, la contro-reazione sarebbe stata ancora più forte. È un momento molto delicato in un’area altrettanto delicata. Per questo, anche fosse un incidente, quanto accaduto ieri a Beirut deve essere trattato come una novità operativa che si è venuta a frapporre nella situazione attuale.

Perché?

Perché il Libano sarà più debole di prima. Ora ha un altro problema: la ricostruzione di Beirut, colpita dal porto fino al centro città da un’esplosione che non si era mai vista neanche al tempo della guerra civile.

Che pensa dell’esplosione?

Da diversi video si vedono esplosioni multiple dopo il primo incendio, come se ci fossero effettivamente fuochi d’artificio o comunque elementi di munizionamento che esplodono. Poi la botta, una detonazione più che una deflagrazione, con il fungo dovuto alla pressione che ha favorito la condensazione del vapore, poi subito scomparso; un’esplosione estremamente veloce di cui Beirut non aveva memoria. È possibile che sia tutto dovuto al caso, ma non dimentichiamoci che parliamo dell’area più conflittuale del mondo, tale per cui qualche dubbio è lecito. C’è poi la contestualità con la sentenza sulla morte di Rafiq al-Hariri, ma non credo che Hezbollah potrebbe avere interesse a fare un’azione del genere, che tra l’altro sarebbe aggravante e conferma in caso di sentenza di condanna per i loro esponenti.

Intravede rischi da tutto questo per i militari italiani presenti nel Paese?

A parte per il militare ferito, impegnato nella Joint multimodal operation unit (Jmou) di base a Beirut, i rischi sono dovuti alla conflittualità nel sud del Libano, lì dove si trova il contingente nazionale e dove la situazione pare in rapida scalata. È chiaro che se tale conflittualità dovesse peggiorare, i nostri militari di Unifil, come sempre, sarebbero sottoposti a rischi, ineliminabili da qualsiasi contesto operativo. La missione Onu da sempre paga un tributo di sangue al confronto nell’area. È un impegno di interposizione, senza compiti diretti, che prevede proprio che gli uomini si interpongano (anche fisicamente) tra i due contendenti per impedire loro di venire alle mani. I rischi ci sono, ma i nostri militari sono preparati, hanno i materiali per proteggersi e l’addestramento necessario per far fronte alle minacce. È chiaro che se le ostilità divenissero generalizzate, i rischi crescerebbero.

Cos’è la Jmou italiana a Beirut?

La Jmou è l’unità per i movimenti interforze e ha il compito di favorire i movimenti logistici e gli afflussi di materiali. Quella italiana, coinvolta dall’esplosione, si trova nel porto di Beirut perché lì arrivano i materiali. Da quello che so, l’ufficio è praticamente andato distrutto, ma per fortuna i danni personali sono stati lievi, forse anche perché l’incendio prima del botto ha dato la possibilità di evacuare.

Cosa accade in queste situazioni al Coi?

Si cerca prima di tutto di capire di cosa si tratta e di fare la conta dei danni, partendo dalla persone. Ci si mette in contatto con il contingente, in questo caso acquartierato a Shama, da cui dipende la Jmou. Una volta avuta contezza dei danni, si pensa ai provvedimenti da adottare da un punto di vista sanitario, fortunatamente leggeri nell’occasione di ieri. Si attiva dunque l’eventuale meccanismo per il recupero e il trasporto, valutando se lasciare i feriti presso strutture locali (Beirut è ben dotata da un punto di vista ospedaliero) o se farli rientrare. In questi casi ci si pone poi sempre l’obiettivo di rassicurare rapidamente a casa. Anche ieri, i militari stessi hanno chiamato le rispettive famiglie. Quando possibile, si cerca sempre di procedere in tal senso e, fortunatamente, oggi la tecnologia aiuta. Nessuna rassicurazione di un superiore può avere l’effetto della voce dei diretti interessati.

Ma a livello operativo cambia qualcosa?

Il problema operativo è da affrontare, ma non è di competenza direttamente italiana. Le unità di Unifil operano sotto controllo operativo dell’Onu. Sono le Nazioni Unite a dare gli ordini, lasciando poi ai contingenti il compito di verificare il rispetto delle regole d’ingaggio tagliate sugli ordini ricevuti. Credo che cambierà poco. L’Onu dirà probabilmente di aumentare la vigilanza dato che si sono state frizioni al confine. Immagino che i nostri saranno molto accorti, ma continueranno di fatto a fare esattamente quello che facevano prima dell’esplosione a Beirut. Il Coi monitora la situazione e fornisce il supporto informativo che proviene dalle varie reti nazionali.

In definitiva, come vanno affrontati i possibili nuovi scenari?

Non dobbiamo trattare il Libano come se fosse un altro pianeta. È a due passi da noi e affaccia sullo stesso nostro mare. Abbiamo interessi e legami forti con il Paese, anche grazie alla presenza pluridecennale dei nostri militari. Non è un caso che i libanesi abbiano sempre preferito un comandante italiano a Unifil rispetto alle altre decine di nazionalità che vi prestano servizio. È il segno di un legame forte e dell’apprezzamento per le nostre Forze armate. Credo che dovremmo stare particolarmente vicini al Libano in questo momento. È un vero miracolo mediorientale, l’unico Paese pluri-confessionale dell’area con una ripartizione, prevista dalla Costituzione, delle cariche di vertice tra cristiani, sunniti e sciiti. Questo capitale ha permesso di mantenere l’area in condizioni di conflittualità controllata. Speriamo che resti così, altrimenti le conseguenze di instabilità si estenderebbero per tutto il Mediterraneo. Personalmente, vorrei esprimere il mio cordoglio e la mia vicinanza al popolo libanese.

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