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La marcia pacifista su Washington e le due anime dell’America. Il racconto di Gramaglia

Fra misure di sicurezza anti-violenze e anti-Covid, obbligo di mascherina e distanziamento sociale, con la Casa Bianca blindata, 50 mila persone si sono ieri radunate a Washington sul National Mall, davanti al palco allestito sulle gradinate del Lincoln Memorial, proprio come il 28 agosto 1963, quando Martin Luther King pronunciò da lì il suo più celebre discorso “I have a dream”.

Allora, 67 anni or sono, una folla enorme segnò una svolta nella lotta dei neri per i diritti civili. Ieri, nonostante i numeri ridotti causa pandemia, il movimento Black Lives Matter puntava a recuperare lo “spirito del ‘63”, per spingere gli Stati Uniti verso la resa dei conti con una questione razziale mai completamente risolta.

“Quando è troppo è troppo”, ha scandito Martin Luther King III, figlio maggiore di MLK, parlando dopo il reverendo Al Sharpton. E dalla folla s’è levato ancora un grido di rabbia e di frustrazione, per le troppe vite di afro-americani recise da una polizia ormai sotto processo in tutta America.

Donald Trump, che giovedì notte aveva chiuso la convention repubblicana, denunciando le violenze dei manifestanti, ma non i soprusi della polizia, non era alla Casa Bianca: era nel New Hampshire, per fare campagna.

In testa al corteo c’era il padre di Jacob Blake, il giovane afro-americano rimasto paralizzato dopo che a Kenosha, in Wisconsin, domenica scorsa, un poliziotto gli ha sparato alla schiena sette colpi di pistola: “Mio figlio è in un letto di ospedale e lo tengono ammanettato”, racconta l’uomo.

Quando la marcia parte dal Lincoln Memorial verso il vicino Martin Luther King Memorial, ci sono anche familiari di George Floyd, il nero ucciso da poliziotti a Minneapolis; di Breonna Taylor, la giovane infermiera afro-americana uccisa dalla polizia in casa mentre dormiva a Louisville, in Kentucky; e di Eric Garner, soffocato da una presa al collo degli agenti a New York.

Lo slogan è “Get your knees off our necks”, via le vostre ginocchia dal nostro collo, con riferimento alla pratica spesso usata dagli agenti per immobilizzare le persone fermate, come accaduto a Floyd, morto soffocato. “I can’t breath”, non posso respirare, le ultime parole di George, è l’altro slogan che risuona più spesso.

In un tweet, Michelle Obama si dice “stanca e frustrata”, descrivendo il suo stato d’animo di fronte al caso Blake e accusando l’amministrazione Trump di alimentare un “razzismo sistematico”. “Quante volte ormai i nostri ragazzi hanno visto la mancanza di empatia, le divisioni… A volte, lo hanno visto nelle notizie. A volte, dal Rose Garden della Casa Bianca. A volte, dai sedili posteriori di un’auto”, riferendosi ai figli di Jacob, che hanno assistito al ferimento del padre.

Intanto, i casi di coronavirus negli Stati Uniti hanno superato i 5,9 milioni: è quanto emerge dai dati della Johns Hopkins University, che sabato hanno registrato oltre 44 mila nuovi contagi – il totale, alla mezzanotte sulla East Coast, superava i 5.918.000 – e quasi 900 decessi – per un totale di quasi 181.800 -.

Due partecipanti e due volontari della convention repubblicana a Charlotte sono risultati positivi. Nella città, si era radunata una rappresentanza ridotta dei delegati (336, un decimo circa del totale) per l’attribuzione ufficiale a Trump della nomination repubblicana e il presidente aveva assistito alla conta e pronunciato un breve discorso.

GpnewsUsa2020

 



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