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Usa2020, il voto con il troll. La guerra delle interferenze spiegata da Martino

Di Lucio Martino

Troppo spesso si dimentica che tutto quello che non è “A” non obbligatoriamente è “B”, che il nemico del mio nemico non necessariamente è mio amico e così via. Eppure, nell’esaminare un paio di documenti firmati in questi ultimi giorni dal direttore dell’intelligence nazionale statunitense, William Evanina, i media, anche quelli italiani, sembrano essersene completamente dimenticati, tanto da ricondurne i contenuti a una semplicistica dicotomia in base alla quale, in vista delle prossime presidenziali, la Federazione Russa “starebbe” con il presidente Donald Trump e la Repubblica Popolare Cinese con l’ex vicepresidente Joe Biden.

In realtà, il quadro disegnato dai comunicati stampa del 24 luglio e del 7 agosto (tutte e due documenti mai classificati e rivolti direttamente al grande pubblico senza neppure la mediazione del Congresso), è diverso. A tre mesi dal voto, Evanina si è rivolto al pubblico americano per chiederne la collaborazione al fine di ridurre il volume di condivisione su piattaforme come Facebook, Instagram, Snapchat e Twitter di notizie prive di qualsiasi fondamento prodotte nell’ambito di una vasta opera di disinformazione, lanciata parallelamente da attori statali e non statali.

Secondo Evanina, le operazioni clandestine volte a influenzare direttamente il risultato elettorale, per quanto possibili, sono una rarità. E questo anche in ragione della complessità, delle ridondanze e dei meccanismi di controllo di un processo elettorale straordinariamente difficile da compromettere al punto da falsificarne il risultato.

Le misure con le quali quest’intero insieme di attori statali e non statali ha tentato e sta tentando di manipolare le dinamiche politiche statunitensi, sono invece identificabili in una serie di prese di posizione, pubbliche e private, volte a colpire i principali protagonisti del momento, approfittando in particolare della situazione di crisi provocata da una parte dalla pandemia e dall’altra dalle manifestazioni di protesta. Sotto questo punto di vista, Evanina fa notare come la Repubblica Islamica dell’Iran, la Repubblica Popolare Cinese e la Federazione Russa non stanno certo nascondendo la propria avversione a questa oppure a quella candidatura.

La Repubblica Islamica dell’Iran è guidata dalla percezione che un’eventuale rielezione del presidente Donald Trump non potrà non condurre al perdurare della presente pressione politica, militare ed economica al fine ultimo di favorire la fine della teocrazia al potere dal 1989. Quanto anche la Repubblica Popolare Cinese preferirebbe che il presidente Trump non sia confermato nel proprio incarico è più che evidente anche dalle ultime scelte retoriche dei suoi principali esponenti.

Questo mentre la Federazione Russa non può davvero vedere con favore l’eventuale arrivo alla Casa Bianca di un Biden del quale non ha dimenticato il ruolo svolto nelle politiche implementate dall’amministrazione Obama nei confronti dell’Ucraina e il supporto da questi offerto alle forze d’opposizione russe. Eppure, almeno nella chiave di lettura offerta da Evanina, non ci sono elementi per credere che una futura amministrazione Biden rappresenti per la Repubblica Islamica d’Iran e per la Repubblica Popolare Cinese il miglior risultato possibile, e lo stesso si può dire al riguardo della Federazione Russa nei confronti di una seconda amministrazione Trump.

L’obiettivo degli uni e degli altri non è certo d’intervenire clandestinamente sul processo elettorale per manipolarne il risultato e favorire l’affermazione di questo oppure di quel candidato, perché più affine ai propri interessi, ma d’interferire visibilmente nel dibattito politico statunitense in modo da aumentarne il già elevato grado di conflittualità e, quindi, ridurre i margini di manovra di qualsiasi nuova amministrazione. Questo e non altro è per tutti e tre questi paesi il miglior risultato possibile, ed è questa la preoccupazione alla base dei due comunicati stampa emessi da Evanina.

A questo proposito, è necessario evidenziare come Trump sia il sintomo e non la causa di una società divisa come non mai, tanto che è assolutamente lecito prospettare che la situazione politica interna statunitense potrà peggiorare anche dopo una sua eventuale sconfitta, particolarmente nel caso in cui gli elettori repubblicani finiscano con il convincersi che il risultato delle elezioni generali di quest’anno sia stato, per così dire, rubato dai Democratici magari con l’aiuto di una qualche potenza straniera.



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