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Intervento militare no (politico sì). Le mosse di Putin spiegate dal prof. Savino

Mosca, Russia

La vittoria elettorale di Aleksandr Lukashenko, proclamata dal governo bielorusso appena chiuse le urne il 9 agosto, ha aperto la strada a giornate di contestazioni e proteste senza precedenti nella storia del Paese. Assieme ai duri scontri, alle azioni delle forze dell’ordine e di sicurezza, poi di fatto cessate in seguito all’entrata in campo di importanti settori del mondo del lavoro, abbiamo assistito in questi giorni allo spesso enigmatico scambio di segnali tra Mosca e Minsk, e a rebus di difficile interpretazione.

Si è già scritto di come lo scenario bielorusso differisca da quanto accaduto in Georgia nel 2003 e in Ucraina nel 2004 e nel 2014; vi è ancora la tendenza però ad interpretare gli avvenimenti di questi giorni in modo schematico, senza prestare attenzione alle peculiarità della situazione. Colpisce soprattutto come la crisi bielorussa venga affrontata da parte russa, dove vi sono diverse posizioni, tante quante sono le torri del Cremlino, per citare un adagio molto amato dagli insider di Mosca.

Di certo, a tener banco è l’ipotesi di una possibile escalation, con conseguenze irreparabili, ispirata da precedenti nemmeno tanto lontani. Vi sarà un intervento militare russo in Bielorussia? Questa eventualità viene evocata sin dal primo giorno, e vedrebbe nella nota diffusa dal Cremlino il 16 agosto una prova di un piano russo di possibile invasione della Bielorussia. In realtà la nota è stata pubblicata dopo due telefonate di Lukashenko a Vladimir Putin, senza alcun commento da parte russa delle conversazioni tra i due presidenti, e richiama genericamente sia all’Unione di stati sia all’Accordo sulla sicurezza collettiva del 1992, con una frase formale “Da parte russa è stata confermata la disponibilità a fornire la necessaria cooperazione nella risoluzione dei problemi sorti sulla base dei principi dell’Accordo. sulla costituzione dell’Unione di stati, ed anche in caso di necessità attraverso l’Organizzazione dell’accordo sulla sicurezza collettiva” (qui i dettagli).

Un passaggio che a prima vista può sembrare il via libera a un’opzione militare, ma a un’analisi più approfondita emergono alcuni elementi non di poco conto. L’intervento, secondo gli accordi, è consentito in caso di minaccia esterna – che Lukashenko ha paventato, accusando Lituania, Polonia, Lettonia e Ucraina di intromissioni e sponsorizzazione delle proteste – ma le condizioni previste nei testi sono molto generiche, e, nel caso dell’Accordo sulla sicurezza collettiva, richiederebbero il consenso dei paesi aderenti (oltre alla Russia e alla Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan). Consenso non scontato, viste anche le buone relazioni di alcuni di questi stati, come Armenia e Kazakistan, con gli Stati Uniti e l’Unione Europea.

Il politologo bielorusso Artyom Shraibman, in un post su Facebook poi ripreso dai media, ha individuato ben dieci motivi sul perché la Russia non interverrà militarmente al fianco di Lukashenko. Alcuni dei punti sollevati da Shraibman appaiono essere molto convincenti, come la difficoltà di intervenire in un contesto dove nelle manifestazioni non vi sono slogan e rivendicazioni antirusse, con il 70% della popolazione che nutre sentimenti amichevoli verso Mosca, dato evidenziato dai sondaggi condotti recentemente. Inoltre, una possibile occupazione porterebbe a una lunga resistenza popolare, oltre a reazioni all’interno della Russia, dove in questo momento sui media gli avvenimenti bielorussi vengono raccontati con toni molto simpatetici alla causa anti-Lukashenko.

Oltre all’invito a prestare attenzione al testo del comunicato del 16 agosto del Cremlino, Shraibman ha sottolineato la forte interconnessione economica tra i due paesi, il mercato rappresenta la stragrande maggioranza dell’export bielorusso, e l’uscita di Minsk dall’Unione eurasiatica significherebbe fermare l’economia nel giro di un mese; inoltre, Mosca possiede oltre il 70% del debito bielorusso. A confermare il punto sulla mancanza di rivendicazioni antirusse da parte dell’opposizione sono le dichiarazioni di questi giorni, soprattutto di Maria Kolesnikova, coordinatrice del comitato elettorale di Viktor Babariko, il banchiere di Belgazprombank con ambizioni presidenziali attualmente in prigione. Kolesnikova è riuscita ad avere un ruolo importante durante la campagna presidenziale di Svetlana Tikhanovskaya, di fatto coordinando l’organizzazione dei comizi e delle varie manifestazioni in quel periodo, e nelle ultime ore ha più volte ripetuto come vi sia la volontà da parte dell’opposizione di continuare ad avere buoni rapporti con la Russia, smentendo le affermazioni di Lukashenko al riguardo. Proprio da parte di Kolesnikova è partita l’iniziativa della lettera indirizzata agli ambasciatori dei paesi dell’Unione europea e alla rappresentanza diplomatica russa, dove si espone la propria versione degli avvenimenti bielorussi.

Il passaggio negli ultimi giorni di alcuni settori dell’élite bielorussa al campo della protesta, tra cui l’ex ministro della cultura e ex ambasciatore in Spagna Pavel Latushko, gli scioperi delle principali aziende, tra cui la MTZ, fabbrica di trattori da sempre fiore all’occhiello dell’industria del paese, e le aperture al dialogo da parte del ministro della salute Vladimir Karanik e le promesse fatte dalle autorità a Gomel’, Grodno e Vitebsk di non ricorrere alla forza contro le manifestazioni – sono tutti segnali importanti non solo per la situazione interna bielorussa, ma anche per Mosca. Se già Vladimir Zhirinovsky la settimana scorsa immediatamente dopo l’inizio delle proteste aveva detto chiaro e tondo che Lukashenko doveva andarsene (e spesso il leader ultranazionalista fa le veci di voce ufficiosa del potere moscovita), negli ambienti politici della capitale russa si prova a lavorare a scenari in grado di garantire gli interessi russi nel prossimo futuro. Scenari capaci di gestire e risolvere la crisi bielorussa nella direzione di mantenere un rapporto stretto e duraturo tra buoni vicini, nella cornice dell’Unione di stati e non intaccare i difficili equilibri regionali. Una transizione che vedrebbe non solo una risoluzione pacifica della crisi, favorevole a Mosca, ma consentirebbe un rilancio della politica estera russa in Europa orientale. Vi sono alcuni elementi che inclinerebbero verso questi orientamenti, come le fitte consultazioni tra Mosca, Berlino, Parigi, Varsavia e Bruxelles negli ultimi giorni, e le conversazioni avute da Putin con Angela Merkel e Emmanuel Macron.

Riusciranno i leader europei e il Cremlino a trovare una linea comune? Nel caso questo avvenga, resterà da vedere come essa verrà percepita dalla piazza. Di certo, del rebus bielorusso si continuerà a discutere nelle prossime settimane, tra timori d’intervento, voci di ogni tipo e proteste.

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