Questa è una brutta storia. Una storia di fughe in avanti a mezzo stampa, in cui il governatore della Regione Siciliana ha scelto di forzare la mano a più livelli. Disporre lo svuotamento degli hot spot, senza averne il potere, significa voler affermare non tanto le proprie scelte (qual è la politica siciliana in tema di controllo dei flussi migratori?! nessuno lo sa), ma soprattutto tutelare la propria immagine. E cavalcare, visto che ci siamo, la tigre della rinnovata paura del coronavirus. A onor del vero e anche senza voler scagionare Musumeci, il diktat sui migranti, in palese spregio delle norme e del buon senso, ha radici lontane.
È l’ultimo frutto avvelenato di quella rissa fra presidenti di Regioni, alquanto indecorosa, andata in scena in piena emergenza, quando il Paese si dibatteva nel lockdown e avrebbe avuto bisogno di unità di intenti morale e pratica. Una pia illusione, durata più o meno il tempo di un canto dal balcone.
Durante lo sconsiderato “liberi tutti”, culminato nel menefreghismo a cavallo di luglio e agosto, non si ricordano accorati appelli di governatori perché si tenesse la barra dritta. Ripresi i contagi e ripartita la macchina della paura, è tornato anche il tempo dei caudilli. Basta fare un po’ di cronaca delle ultime due settimane, per ritrovare tutti i tic e le pessime abitudini di aprile e maggio. Le accuse reciproche, gli aut aut, “l’avevo detto io” elevato ad arma dialettica. Perché va bene il Covid, ma nulla è importante come coprirsi con i propri bacini elettorali.
Fino ad arrivare all’offensiva siciliana, in cui si mescola tutto: la ritrovata emergenza coronavirus, il sempreverde tema-migranti, l’ansia di marcare il territorio. Imponendo lo sgombero delle strutture di accoglienza, Musumeci era perfettamente conscio di non poter ottenere il risultato annunciato. Tanto è vero che oggi il presidente siciliano annuncia come una vittoria il trasferimento dei soli 62 migranti positivi, ospitati a Pozzallo, disposto da Prefettura di Ragusa e Viminale. Cosa intuitivamente diversa dai roboanti proclami di sgombero totale, ma fa nulla: ciò che conta è l’effetto-annuncio. Quella che a Napoli, dalla notte dei tempi, si chiama ‘a mossa.
La politica del III millennio, del resto, assomiglia sempre più a una rappresentazione teatrale. Sul palcoscenico, si muovono confusamente i protagonisti di Roma e della periferia, ciascuno recitando un copione ignoto agli altri. In platea, non si ascolta, non si chiede di capire. Troppo spesso ci si accontenta di fare il tifo. Il risultato è una cacofonia di paroloni senza sostanza, di politica ridotta a decibel.