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Vi spiego la libertà al tempo della pandemia. L’analisi di Ocone

La difesa della libertà è il titolo del numero 10 (estate 2020) di Nazione Futura, rivista di approfondimento politico, economico e culturale diretta da Daniele Dell’Orco e pubblicata dall’associazione omonima presieduta da Francesco Giubilei. Il tema della libertà nel periodo del Covid-19 è affrontato in una serie di interventi, fra gli altri, di Dario Antiseri, Paolo Becchi, Eugenio Capozzi, Ginevra Cerrina Feroni, Dino Cofrancesco, Giancristiano Desiderio, Eugenio Di Rienzo, Marco Gervasoni e Gennaro Malgieri. Pubblichiamo l’articolo di apertura firma di Corrado Ocone, che presiede il comitato scientifico dell’associazione.

Nazione FuturaChe ne è della libertà individuale nel nostro mondo? Credo che, per rispondere a questa domanda, bisogna prima di tutto dissipare un equivoco: il liberalismo politico e le sue istituzioni (divisione e controllo reciproco dei poteri, costituzioni, parlamenti, rispetto di “diritti” di vario tipo, ecc.) è un dispositivo teorico-politico sviluppatosi negli ultimi secoli, cioè in epoca moderna, e soprattutto nel mondo occidentale, che ha garantito e tutelato con indubbio successo la libertà degli individui, ma che, vivendo nella storia come ogni altro fatto o idea, non può pretendere di essere considerato un assoluto metafisico. Anche perché le stesse concrete esigenze di libertà mutano col tempo.

Quando Vladimir Putin dice che il “liberalismo è obsoleto”, è al liberalismo politico che si riferisce e, stando a quel che è dato vedere in giro per il mondo, tutti i torti non ha. La macchina non funziona più come un tempo: se l’avvento delle masse sulla scena della storia nel secolo scorso ha favorito, con molte difficoltà e contraddizioni, la sintesi liberal-democratica; la “quarta rivoluzione industriale”, cioè quella legata al digitale, all’“intelligenza artificiale” e alle tecnologie delle comunicazioni e dell’informazione, non sembrano ancora trovare una sintesi adeguata. D’altronde, ciò che è giunta al termine è proprio la modernità: lungi dall’essere incompiuto, come vorrebbe Jurgen Habermas, il progetto moderno si è realizzato, almeno nella sua forma illuministica, quasi senza scarti e il risultato che c’era da attendersi, il relativismo e il nichilismo, si è puntualmente verificato.

Il fatto è che però, se qualcosa è in crisi o viene avvertito come alla fine del suo percorso, non per questo le risposte che esistono, o si intravedono all’orizzonte, possono essere considerate soluzioni soddisfacenti. Non c’è dubbio che i regimi autocratici non siano la soluzione, così come non lo è qualsiasi risposta reattiva o di ritorno acritico al passato. Anche se è poi nel passato, nella nostra cultura e tradizione (cristiana, liberale, occidentale), che dobbiamo cercare la riserva di senso per uscire dallo stallo. Cosa ci riserverà il futuro a nessuno è dato saperlo, ma intanto noi dobbiamo fare i conti con i problemi di libertà che sorgono all’interno del nostro mondo. La pandemia da coronavirus ha accentuato questi problemi, ha mostrato la difficoltà di affrontarli delle democrazie occidentali e ha anche messo di fronte ai rischi di affrontarle nel modo sbagliato, cioè lesivo della libertà. Anche questa volta l’Italia è stata all’avanguardia di processi politici che forse interesseranno presto un po’ tutti: un laboratorio ove si è provato a sperimentare, e poco importa che lo si sia fatto con consapevolezza o molto più probabilmente con inconsapevolezza, scenari di governamentalità (per dirla con Michel Foucault) futura. Eppure, in modo solo apparentemente paradossale, proprio i classici del pensiero liberale ci indicano gli errori più macroscopici da evitare, o meglio i mali da combattere, per evitare derive possibili…

Nella partita fra sicurezza e libertà, nel nostro Paese, la prima sembra avere avuto la meglio. Si è trattato di un processo preoccupante, non tanto per quel che ha comportato – la sospensione per alcune settimane di fondamentali libertà (movimento, associazione, privacy) – quanto per la leggerezza con cui è stato affrontato sia a livello dei poteri costituiti sia a quello dell’opinione pubblica e dei cittadini. I primi, pensando soprattutto a preservare il loro potere, non hanno mostrato nessuna angoscia, che le classi dirigenti di un tempo avrebbero forse avuto, nel sospendere le libertà; a ciò ha corrisposto, da parte dei cittadini, una accondiscendenza generale, una assoluta e nemmeno minimamente travagliata disponibilità, in cambio di una sicurezza sanitaria diventata un assoluto, a rinunciare ai propri diritti e prerogative. È come se l’utilitarismo basico, quello su base biologica, avesse sopraffatto qualsiasi prospettiva etica (cioè concernente la libertà, che appunto coincide in un’ottica kantiana con l’etica perché non è eteronoma, cioè si eleva sulla necessità materiale). Come non ricordare allora le pagine de La democrazia in America in cui Tocqueville paventava il rischio di un mondo futuro – della “democrazia” compiuta nel suo linguaggio – ove l’“uomo democratico” per una sua comodità materiale cedeva i suoi diritti e la sua libertà all’autorità costituita:

Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto che il dispotismo potrà avere nel mondo, vedo una folla innumerevole di uomini eguali, intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari, con i quali soddisfare i loro desideri… Al di sopra di essi si eleva un potere immenso e tutelare, che solo si incarica di assicurare i loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Rassomiglierebbe all’autorità paterna se, come essa, avesse lo scopo di preparare gli uomini alla virilità, mentre cerca invece di fissarli irrevocabilmente nell’infanzia, ama che i cittadini si divertano, purché non pensino che a divertirsi. Lavora volentieri al loro benessere, ma vuole esserne l’unico agente e regolatore; provvede alla loro sicurezza e ad assicurare i loro bisogni, facilita i loro piaceri, tratta i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; non potrebbe esso togliere interamente loro la fatica di pensare e la pena di vivere? Così ogni giorno esso rende meno necessario e più raro l’uso del libero arbitrio, restringe l’azione della volontà in più piccolo spazio e toglie a poco a poco a ogni cittadino perfino l’uso di se stesso. L’eguaglianza ha preparato gli uomini a tutte queste cose, li ha disposti a sopportarle e spesso anche considerarle come un beneficio. Così, dopo avere preso a volta a volta nelle sue mani potenti ogni individuo ed averlo plasmato a suo modo, il sovrano estende il suo braccio sull’intera società; ne copre la superficie con una rete di piccole regole complicate, minuziose ed uniformi, attraverso le quali anche gli spiriti più originali e vigorosi non saprebbero come mettersi in luce e sollevarsi sopra la massa; esso non spezza le volontà, ma le infiacchisce, le piega e le dirige; raramente costringe ad agire, ma si sforza continuamente di impedire che si agisca; non distrugge, ma impedisce di creare; non tiranneggia direttamente, ma ostacola, comprime, snerva, estingue, riducendo infine la nazione a non essere altro che una mandria di animali timidi ed industriosi, della quale il governo è il pastore. Ho sempre creduto che questa specie di servitù regolata e tranquilla, che ho descritto, possa combinarsi meglio di quanto si immagini con qualcuna delle forme esteriori della libertà e che non sia impossibile che essa si stabilisca anche all’ombra della sovranità del popolo.

Come non pensare, leggendo queste parole, alla minuziosità con cui i vari Dpcm, veri e propri trattati di bizantinismo burocratico, pretendevano, nei giorni del “lockdown”, di regolamentare tutte le nostre azioni, la nostra vita, i nostri comportamenti? E ovviamente lo facevano in maniera confusa, contraddittoria, persino surreale, ove non era dato vedere una ratio. Non sarebbe stato più semplice affidarsi alla libertà, e quindi alla responsabilità, dei singoli e a poche leggi generali che punissero le più gravi infrazioni? Non potrebbe essere che Gran Bretagna e Stati Uniti sono stati meno rigidi di noi non perché Boris Johnson e Donald Trump sono “cattivi” e “ignoranti”, ma proprio perché la libertà è in quei popoli connaturata in modo più profondo? E come non ricordare, leggendo sempre la pagina tocquevilliana, certe parole del premier italiani o dei suoi commissari in cui, accettandolo, venivamo trattati come bambini e casomai venivamo ripresi se qualcuno di noi (mettiamo un runner) aveva col buon senso contravvenuto a qualcuna delle minuziose regole partorite dai vari e pletorici comitati?

Vengono in mente anche le pagine del Kant liberale e critico del “dispotismo illuminato” (si fa per dire) del suo e di ogni tempo: quello che vuole fare uscire l’uomo dalla minorità, cioè dall’irresponsabilità, che deve imputare solo a se stesso, che vuole fargli gettare le dande che mai lo faranno camminare da solo. O che paragona in dignità un universo conciliato a un insieme di uomini simili a un gregge di pecore menato al pascolo dal pastore. Il pastore in questo caso è anche lui irresponsabile, delega alle commissioni o a un algoritmo le sue decisioni. E questa è un’indubbia novità dei nostri tempi. In ogni caso il motivo antipaternalistico percorrere la storia del pensiero liberale di quel torno di tempo (molto simile al nostro) che va da Kant a Humboldt, da Tocqueville appunto a John Stuart Mill fino, in Italia, più tardi, a Luigi Einaudi.

C’è poi la fisima razionalistica, contro cui si è battuto pure forte il pensiero liberale, che vorrebbe pianificare la cosiddetta “fase 2” o della ripartenza. A combattere il razionalismo è stato un po’ tutto il principale pensiero liberale del secolo scorso, come argomento nel mio Il Liberalismo nel Novecento (Rubbettino); Croce, Hayek, Popper, ecc. Qui riporto le parole di Michael Oakeshott (in Razionalismo in politica):

La profondità con cui l’atteggiamento mentale razionalistico ha invaso il nostro pensiero e la nostra prassi politica è illustrato dalla misura in cui le tradizioni di comportamento hanno ceduto il passo alle ideologie, dalla misura in cui la politica della distruzione e della creazione ha preso il posto della politica della riparazione, con la conseguenza che tutto ciò che è stato coscientemente pianificato e deliberatamente eseguito viene considerato (proprio per tale ragione) migliore di ciò che è cresciuto e si è affermato senza averne avvertenza lungo un arco di tempo. Questa trasformazione di abitudini di comportamento, adattabili e mai del tutto fissate o finite, in sistemi di idee astratte relativamente rigidi non è ovviamente nuova, per quanto concerne l’Inghilterra essa ebbe inizio nel XVII secolo, al sorgere della politica razionalistica, tuttavia, mentre in precedenza essa incontrò la tacita opposizione e fu quindi ritardata, per esempio, dell’informalità della politica inglese (cosa che ci ha consentito di evitare a lungo di attribuire un valore troppo alto all’azione politica e di riporre troppe speranze nei risultati della politica – di evitare, quanto meno in politica, l’illusione della sparizione dell’imperfezione), tale resistenza è stata ora anch’essa convertita in un’ideologia.

E infine, la conseguenza ultima di tutto ciò: l’omologazione, il conformismo, ad esempio quello generato dal politicamente corretto, che proprio nei giorni della pandemia, con il Black Lives Matter soprattutto, ha avuto una recrudescenza raggiungendo punte di intolleranza, violenza e irrazionalità inconcepibili.

In conclusione, si può dire che, fermo restando il nostro impegno in sua difesa e per la sua promozione, cosa ne sarà della libertà (cioè in fondo dell’umanità) in futuro non sappiamo. Così come non sappiamo quali forme assumerà il liberalismo, anche in ragione della spinta propulsiva che nei suoi rispetti avrà avuto il “sovranismo”, o meglio l’azione dei “sovranisti” (cfr. il mio saggio sulla “funzione liberale del sovranismo” nel numero in uscita della rivista “L’Ircocervo” diretta da Paolo Becchi). Quel che è sicuro è che la storia del pensiero liberale ci offre, in modo non dogmatico, una non indifferente “cassetta di attrezzi”, come suol dirsi.

 


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