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Il nichilismo, la tecnica e le sfide del vivere. Dialogo (da capogiro) tra Borgna e Galimberti

Cosa dà senso al vivere? Come fare esperienza della meraviglia? Se il nichilismo è mancanza di perché, e se oggi è per la filosofia l’epoca del nichilismo, quali sono le sfide che ci attendono? Le domande, le stesse che da sempre l’essere umano si pone e che, nonostante tutto, continua a farlo anche oggi, nella società della “crisi di senso”, risuonano in maniera carsica, ma in maniera così affascinante da fare venire il capogiro, durante il dibattito che si è svolto al Meeting di Rimini – “Le sfide del vivere nell’epoca del nichilismo”, introdotto e moderato dal filosofo Costantino Esposito. Un dialogo tra forse il più grande psichiatra italiano in vita, Eugenio Borgna, primario emerito del reparto di psichiatria di Novara, oltre che accademico e saggista, e Umberto Galimberti, filosofo, sociologo, psicoanalista, accademico e giornalista, insomma uno dei maggiori pensatori italiani che è riuscito ad andare più a fondo su questioni come la tecnica e il nichilismo nella società contemporanea.

La triste presa d’atto del professor Borgna, innanzitutto, è che la condizione umana, oggi, è sempre più amaramente spostata sul piano dell’esteriorità. Sul piano cioè dell’oggi, del presente, una dimensione senza legami con il passato che è stato e con il futuro che sarà. Ma la carenza più radicale in tutto ciò, spiega, è la “mancanza di analisi interiore, dell’osservazione dei nostri pensieri, speranze e disperazioni”.

Sant’Agostino diceva In interiore homine habitat veritas, ma quanti fra noi, ogni giorno, a fine giornata ripensano al senso delle cose fatte? I nostri giovani sono travolti da un nichilismo esasperato. La mancanza di significato porta all’angoscia e alla disperazione. Allora continuo a chiedermi: quanta responsabilità nei giovani e quanta invece negli adulti, portati a negare ogni significato al dolore, alla sofferenza, alla fragilità?“. La domanda posta dal professore Borgna, novantuno anni appena compiuti, è quella di un medico, un pensatore, che conosce bene la fede cristiana, che ha scritto tanto ma che ancora più si è confrontato con la dura realtà dell’ospedale, in generale, e del manicomio, in particolare, prima della storica riforma che si è avuta con la Legge Basaglia.

Per cui una figura che conosce a fondo l’animo umano perché con questo si è confrontato nel corso di tutta la sua vita, per via della sua professione, oltre che della sua propensione e attitudine umana che lo ha portato, fin dagli anni sessanta, a introdurre metodi di cura incentrati non sulla coercizione ma sul dialogo, sull’ascolto empatico, sulla comprensione del dolore che si apre alla prospettiva, ineludibile e tutta profondamente umana, della speranza. “Gli adulti forse oggi sono incapaci ancora più dei giovani di guardare dentro di sé e di ascoltare le proprie emozioni quando si incontrano con gli altri”, è la dura sentenza del professore. “Come diceva Bernanos, anche la speranza nasce dalla disperazione. Se rifiutiamo il mistero rifiutiamo la percezione degli orizzonti e dei valori della vita”.

“Una mia paziente – racconta –  immersa in quella perdita di speranza che costituisce il leitmotiv di ogni forma di depressione, che oggi fanno sempre più esageratamente parte della vita, e che avvicinano la vita al suicidio, una mattina mi guarda e mi dice: non so che cosa sia avvenuto. Le speranze sulle quali avevo costruito la mia vita, come avere una figlia, erano tutte fallite. Ma stamattina, improvvisamente, non so perché, ho avuto l’impressione che potesse realizzarsi, non questa o quella speranza, che cioè mia figlia guarisse o che la situazione familiare si alleggerisse, ma il fatto di sentirmi trasformata, cambiata nella speranza che mi ha aperto l’orizzonte del futuro”.

Quella donna, spiega Borgna, riconobbe che “vivendo prigioniera del passato vivevo prigioniera in un presente che non aveva nessuna dimensione del passato”. Ma “ecco che improvvisamente arriva questa speranza, che non veniva certo dalle cure che stavamo facendo. Da che cosa veniva, senza mescolare pensieri metafisici, religiosi e psicologici? Perché nasceva questa speranza? Nell’uomo e nella donna allora vediamo che c’è sempre una sorgente, come archeologicamente nascosta, che rinasce solo quando cresce la nostra capacità di cogliere quello che avviene dentro di sé e dentro gli altri”.

In tutto questo, però, si innesta la tematica del nichilismo, della tecnica, della società post-moderna e iper-razionale che decostruendo tutto non lascia spazi per ricostruire nulla che non sia funzionale a sé stessa, ai propri ingranaggi, al fine ultimo e ultimativo della funzionalità utilitaristica. Io sono perché produco. Ma tutto questo dove porta, qual è il fine ultimo del nostro agire, se questo fine, l’umano, viene in qualche modo reso sempre più labile, indefinito, impercettibile, fluido?

“L’emergenza del nichilismo è caratterizzata dall’imprevedibilità del futuro”, spiega Galimberti. La parola futuro, infatti, per il filosofo e psicoanalista, è importante in maniera particolare per gli abitanti dell’Occidente. Perché cresciuti “in maniera cristiana”. “Tutti siamo cristiani, anche gli atei, gli agnostici, anche io che non sono cristiano e penso in maniera greca”, dice Galimberti.

“Siamo tutti cristiani, perché il cristianesimo non è solo una religione ma una cultura, direi perfino un inconscio collettivo. È stato il cristianesimo a interpretare il tempo in una modalità in cui il futuro costituisce comunque una promessa. Ha diviso il tempo in tre stati: nel passato, il peccato originale; nel presente, la redenzione; nel futuro, la salvezza. Il futuro è assolutamente positivo. E la scienza pensa in modo assolutamente cristiano. Il passato è ignoranza, il presente ricerca, il futuro progresso. Anche Marx a mio parere è un grande cristiano: il passato è ingiustizia sociale, il presente è fare esplodere le contraddizioni del capitalismo, il futuro è la giustizia sulla terra. Anche Freud, che scrive contro la religione, vede nel passato la nevrosi e il trauma, nel presente la terapia, nel futuro la guarigione. Tutto è cristiano in Occidente, fondato sul concetto di tempo dove alla fine si realizza quello che all’inizio è stato promesso”.

La concezione escatologica e lineare del tempo non ha infatti nulla a che spartire con l’antica Grecia, spiega il filosofo, in cui l’età dell’oro era qualcosa che stava alle spalle, mentre invece il futuro era destinato a portare con sé la decadenza. “Nietzsche dice che Dio è morto ma lo fa annunciare non dall’ateo ma dal folle, perché senza Dio si perde l’orizzonte. Dice: noi lo abbiamo ucciso, abbiamo fatto il più grande dei delitti, e ora non abbiamo più nulla. Le chiese sono diventate le tombe e i sepolcri di Dio. Quindi: manca lo scopo, il futuro non è più la promessa. È imprevedibile, quando non una minaccia. Manca la risposta al perché. Perché mi devo dare da fare, devo studiare, devo stare al mondo? Così sono molti i giovani che si suicidano”.

Il nichilismo quindi, per Galimberti, “ha tolto la positività del futuro, caratteristica fondante della cultura cristiana. Non è tanto quindi capire se Dio esiste o no, ma se fa mondo oppure no. Perché altrimenti il futuro diventa un tempo qualsiasi, senza rimedio alla condizione attuale”. Per questo “il nichilismo va guardato bene in faccia”, chiosa il professore. “Ma la gente si rifiuta di vedere che ha perso il senso. I giovani vivono nell’assoluto presente perché il futuro non è più una promessa. E alcol e droga sono espedienti che diventano anestetici per non guardare avanti e avere l’angoscia dell’insignificanza del tempo”.

La tecnica, inoltre, per il professore “non è più uno strumento nelle mani dell’uomo”. “Oggi la tecnica è diventato il nostro ambiente, il nostro modo di abitare o di pensare. Caratterizzata dalla forma più alta di razionalità mai raggiunta da un uomo”. Per tecnica Galimberti ovviamente non intende la tecnologia in quanto tale, “ma il tipo di razionalità che la tecnica mette in circolazione, che consiste nel raggiunge il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi”. “Questa è anche la razionalità del mercato, che però soffre ancora di una passione umana, che è la passione del denaro. Da cui la razionalità tecnica è esonerata. La tecnica prevede come valori esclusivamente efficienza e produttività, nient’altro. Non apre scenari di salvezza o dischiude orizzonti di senso: la tecnica funziona. E siccome il suo funzionamento è diventato planetario, noi uomini stiamo diventando funzionari di apparati tecnici”.

Galimberti ricorda che sono secoli che la filosofia ha affrontato questi temi. Lo hanno fatto Spengler, Heiddeger, Jaspers, Severino. “Ma siccome la filosofia non si studia più perché non serve a niente, queste cose non si sanno”, è la sconsolata presa di coscienza. “L’uomo è già uscito dalla storia. Perché l’uomo non è solo razionalità, ma è anche irrazionale: lo è l’amore, il dolore, l’immaginazione, l’ideazione, il sogno, e tutte queste dimensioni che sono elementi di disturbo per la funzionalità tecnica. Ogni lunedì, quando andiamo a lavorare in un apparato tecnico, diventiamo funzionari di apparato”.

Per Galimberti, “il modello della società della tecnica è quello del nazismo senza però averne i suoi toni truci. La tecnica ci toglie la responsabilità nei confronti dell’interlocutore. La responsabilità è solo verticale, nei confronti del superiore. La risposta dei generali nazisti quando venivano processati era: ho ubbidito agli ordini. Questa è la risposta dell’età della tecnica. Se il medico non sta alla razionalità dei protocolli viene esonerato, ma tutti i protocolli vanno bene? Ormai i medici guardano esami e lastre ma i pazienti non li guardano proprio”.

Al lato opposto della condizione tremendamente infelice descritta da Galimberti, però, c’è la ricerca della felicità. “La condizione per arrivare alla felicità è: conosci te stesso, gnothi seauton, conosci il tuo daimon e realizzalo. Nel farlo, però, non oltrepassare il limite. Perché altrimenti commetti tracotanza, hybris, dicevano i greci”. Ma “noi occidentali abbiamo perso il senso del limite, perché viviamo un progresso sfrenato. I nostri nonni avevano meno disponibilità di noi ma probabilmente erano più felici di noi”. Tuttavia, resta un dato. Che “coltivare l’amore è la grande macchina attraverso di cui ci si può relazionare e trovare il senso di essere uomini”, conclude Galimberti. “L’amore non è razionale ma appartiene alla follia, lo diceva Platone, e come ha scritto Borgna la follia che ci abita è di tutti, ed è solo attraverso la nostra parte irrazionale che riusciamo a raggiungere la verità dell’altro e l’altro raggiunge la nostra verità”.

Qual è allora la speranza, è la domanda posta in conclusione dallo psichiatra Borgna, che “qualcosa possa muoversi anche nel Deserto dei Tartari di Buzzati”, che “contrassegna la vita di chi è prigioniero della perdita del reale”? “Soltanto la disperata ricerca che ciascuno di noi ogni giorno dovrebbe fare”, risponde lo psichiatra. “In che misura conosciamo vita e interiore e solitudine nostra e degli altri? La speranza si forma all’interno della famiglia, nell’ascolto. Nel mio lavoro, il mio primario mi diceva: se lei riesce a salvare un giovane dal suicidio la sua vita ha trovato un senso. Dal deserto di emozioni, speranze e desideri non si esce se non nella speranza e nell’utopia di creare ogni volta incontri che abbiano la caratteristica del possibile e non quello dell’impossibile. Romano Guardini diceva che la malinconia è la nostalgia dell’infinito. Allora l’infinito è anche quello che può scaturire da ogni nostro incontro”. Proprio come quello tra il professor Borgna e il professor Galimberti.

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