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Putin e la crisi con Minsk. Il Cremlino ha pronta una sorpresa?

I trentadue cittadini russi arrestati in Bielorussia erano a Minsk per uno scalo: da semplici turisti erano diretti alla cattedrale di Santa Sofia, altro che mercenari operativi della Wagner, società privata che il Cremlino usa per il lavoro sporco. Lo hanno detto loro stessi al capo del Comitato investigativo che sta indagando sulla loro presenza nel paese, denunciata come la dimostrazione della volontà russa di interferire in qualche modo con le elezioni presidenziali del 9 agosto. Siamo a un livello di trolling professionistico, Hagia Sophia (al centro delle polemiche per la trasformazione in moschea) sostituisce la cattedrale di Salisbury, l’edificio neogotico che due russi operativi del Gru dicevano di voler visitare due anni fa per celare la propria indennità e i propri obiettivi, una volta scoperti nella cittadini inglese per uccidere l’ex collega, disertore, Sergei Skripal.

Janusz Bugajski del Cepa ritiene che Putin potrebbe usare “il pretesto di disordini crescenti in Bielorussia e le contestate elezioni presidenziali” come un’opportunità per agire come liberatore nazionale con la “prospettiva incombente” dell’assorbimento della Bielorussia in Russia. È il punto che ha portato l’eterno presidente Aleksandr Lukashenka a creare un distanziamento politico da Vladimir Putin. Questo allentamento nei rapporti non è ammissibile per la ambizioni della Russia-globale a cui mira Putin e su cui il presidente russo basa buona parte della sua narrativa. Per questo il direttore dell’Atlantic Council, Fred Kempe, scrive in un fondo per la CNBC che da Mosca potrebbe arrivare una “August surprise“, una sorpresa che parafrasa quella di ottobre che nel gergo politico statunitense indica un evento inatteso che potrebbe scombussolare le carte (poco prima del voto di novembre).

A proposito della “bomba estiva” Kempe cita Angela Stent, professoressa della Georgetown tra i massimi esperti di Russia negli Stati Uniti, autrice di “Putin’s World: Russia Against the West and With ther Rest” : “È tipico della storia russa, le cose sembrano essere stabili fino a quando improvvisamente non lo sono. A Putin piace sorprendere”. Kempe ricorda che situazioni come l’annessione della Crimea nel 2014 oppure l’ingresso in guerra in Siria nel 2015, o ancora prima la crisi bellica con la Georgia del 2008, si sono sempre abbinate a momenti in cui Putin ha avuto la necessità di rinvigorire la narrativa che lo tiene al potere. Eventi a sorpresa, collegati a debolezze e criticità interne: in questo caso, tutto ruota attorno alle difficoltà economiche. Condizione non da poco, che ha portato in strada i manifestanti anti-Cremlino a Khabarovsk – le cui istanze, secondo l’ultimo sondaggio del Levada Center, raccolgono il consenso del 45 per cento dei russi.

Se si pens al rischio punitivo che corre chi in Russia manifesta contro il potere putiniano, certe proteste assumono sempre un valore. Ora, il punto torna attorno a Lukashenka. Sull‘ultimo dittatore d’Europa la narrazione da parte dell’Occidente è cambiata – innanzitutto, come fa notare l’analista politico di Minsk Alexander Klaskovsky sul Sole 24 Ore, Stati Uniti e Unione europea hanno smesso di chiamarlo dittatore da dopo l’annessione della Crimea. Un cambio di atteggiamento nei confronti dell’uomo forte bielorusso che viene visto come un tassello dell’equilibrio anti-Mosca. Per questo le “Power Rangers”, le tre donne che lo sfidano alla presidenza, non ricevono per ora un incoraggiamento occidentale, che dovrebbe essere quanto meno basato sulla condivisione di valori e visioni democratici. Lukashenka, che intrattiene rapporti con le cancellerie europee e che a febbraio ha ricevuto la visita del segretario di Stato, Mike Pompeo, può mettere molto in difficoltà Putin.

Allo stesso tempo, secondo Kempe, può essere teatro di sfogo di una qualche sorpresa da Mosca. La Russia è ancora un problema, e potrebbe diventarne uno anche più grosso: lo ha spiegato chiaramente in un op-ed sul Washington Post Robert O’Brien. Il consigliere alla Sicurezza nazionale della Casa Bianca ha ricordato come il presidente Donald Trump sia stato il più severo con la Russia dai tempi dell’amministrazione Reagan. È una ricostruzione narrativa che serve anche a creare appeal elettorale; è parte del lavorio interno a Washington per evitare lo sbilanciamento trumpiano verso “his friend” (come ha scritto Kempe) Putin; è un modo per mettere in guardia il Cremlino. Eventuali mosse avventate saranno sanzionate dagli Usa come è stato sanzionato ognuno dei “comportamenti maligni” (per usare la definizione americana) portati avanti dalla Russia in questi anni.

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