Far finta di nulla è da incoscienti. A leggere nelle viscere dei sondaggi si scopre una inquietudine profonda del Paese. L’area del consenso attorno a questo governo, nonostante la riserva di popolarità di cui lucra il presidente del Consiglio, rimane troppo esigua. All’indebolimento del M5S non consegue, a rovescio, la ripresa del Pd; né gli alleati minori danno segno, per altro, di saper guadagnare posizioni lungo la striscia di terreno che divide la maggioranza dallo schieramento di opposizione. Di fatto la polarizzazione del sistema assegna al centrodestra un vantaggio che la crisi indotta dalla pandemia, lungi da scalfire, ha semmai rafforzato. Più cresce l’incertezza delle famiglie, colpite direttamente nelle aspettative di natura economica, più stenta a manifestarsi una risposta della politica all’altezza della sfida.
L’appuntamento referendario è la riprova di come sia manomessa l’esigenza di una nuova guida politica. Si getta in pasto alla pubblica opinione un taglio degli eletti alla Camera e al Senato per il quale ogni spiegazione s’accompagna fatalmente al crocidìo dell’antiparlamentarismo, eterna espressione italica del “distanziamento sociale” del popolo – rileggiamo i Promessi Sposi – dal potere e dall’autorità. Qual è l’obiettivo? Il risparmio è risibile, se non persino inesistente. È un taglio a secco, fuori da un riordino del bicameralismo, a prescindere da un razionale processo di riforma. Sarebbe una misura contro la vecchia casta, ma sembra a tutti gli effetti l’orpello o il distintivo di una nuova casta, priva di ideali e modelli democratici.
Non a caso, chi è contro questa soluzione abborracciata pone l’accento sul rinnovamento del governo parlamentare, inteso come governo che fonda la sua legittimità sul rapporto consustanziale, per così dire, con la rappresentanza popolare. Ciò implica, del resto, un discorso sui partiti. Essi hanno dismesso, salvo eccezioni, la loro caratteristica di luogo di formazione della volontà popolare. Forza Italia non ha mai celebrato un congresso in tutti questi anni, né mai ha concepito l’ipotesi di una leadership contendibile sulla base di un libero confronto delle idee. Ora, senza una ritrovata missione dei partiti anche il Parlamento smarrisce la sua funzione essenziale. Il vero rischio è che la contrazione degli eletti sia il sigillo apposto alla volontà di configurare un assetto oligarchico della società, benché la narrazione grillina pretenda di organizzare attorno a “quota 600” – numero totale di parlamentari eleggibili con le nuove norme costituzionali – una dimensione più perfetta di democrazia.
Ora, se anche il presidente della Camera, Roberto Fico, esclude che la riforma elettorale possa arrivare in Aula prima del voto referendario, diventa avventuroso prevedere anche per i sostenitori del Sì gli sviluppi di un atto di fiducia alla cieca. Persino Berlusconi si ritrae da questa gara a chi la spunta in fatto di demagogia. Non si vede il motivo, allora, per il quale il Pd debba essere chiamato a dividersi negli organi dirigenti. A Zingaretti non manca la sensibilità e l’autorevolezza per indicare una linea generale, senza ambire a che la (finora) ostentata adesione al “Sì” si traduca in un vincolo insopportabile per molti dirigenti e militanti del partito. Sarebbe illusorio immaginare che le incongruenze accumulate in questi lunghi mesi, complice l’eccezionalità degli eventi legati al coronavirus, siano infine trasformate mediante un salvifico richiamo alla disciplina. Non bisogna mostrare i muscoli in forza delle previsioni elettorali, tutte favorevoli ai sostenitori della pur controversa riforma, come qui si è detto. Anche il governo dovrebbe stare fuori dalla mischia: tirare Conte per la giacchetta, facendone il garante supremo di tale revisione costituzionale, significa congiurare alla celebrazione di un populismo ancor più strano e pericoloso perché guidato o messo in sicurezza dalle istituzioni. Evitiamo il peggio.