Tra un mese esatto la Costituzione potrebbe subire un cambiamento di non poco conto. Stiamo parlando della riforma costituzionale che prevede il taglio del numero dei parlamentari: da 630 a 400 i deputati, da 315 a 200 i senatori. Se poi consideriamo anche quelli eletti nella Circoscrizione Estero, i deputati e i senatori eletti sul territorio nazionale saranno rispettivamente 392 e 196. Una sforbiciata di quasi il 40%.
La riforma prende avvio con l’inizio della legislatura in corso, scritta dall’allora maggioranza giallo-verde, M5S e Lega. Entrambi i partiti avevano infatti la riduzione del numero dei parlamentari nei loro programmi elettorali. Per la verità le ambizioni del M5S erano molto più ampie, poi sono state ridimensionate e la questione è diventata meramente numerica.
La revisione costituzionale – come previsto dall’art. 138 della Costituzione – deve essere approvata da entrambi i rami del Parlamento, sul medesimo testo, in due differenti votazioni a distanza di almeno tre mesi l’una dall’altra. Nella seconda deliberazione deve essere approvata dalla maggioranza dei componenti di entrambe le Camere. Se entro tre mesi ne fanno richiesta cinque Consigli regionali oppure 1/5 dei componenti di una Camera ovvero cinquecentomila elettori, il testo di revisione costituzionale è sottoposto a referendum popolare, senza quorum costitutivo. Se il testo è invece approvato in seconda deliberazione dalla maggioranza dei 2/3 dei componenti di entrambe le Camere, non si procede a referendum confermativo. Questa la procedura.
Nelle prime due votazioni della prima deliberazione, e nella prima votazione (al Senato) della seconda deliberazione, la riforma è stata approvata da M5S, Lega e Fratelli d’Italia. Partito Democratico e LeU hanno invece votato contro tre volte su tre. Nella quarta ed ultima votazione alla Camera (seconda votazione della seconda deliberazione), hanno votato tutti a favore, anche Partito Democratico, ItaliaViva e LeU in forza del sopraggiunto accordo di governo col M5S. Il Pd, che tre volte su tre aveva votato contro, all’ultimo passaggio ha votato a favore: cosa si fa pur di ritornare al governo nonostante la sconfitta elettorale. Questo il quadro dell’ottobre 2019. A gennaio di quest’anno 1/5 dei senatori ha chiesto il referendum: firmatari tra tutti i partiti, tranne Fratelli d’Italia.
A fine gennaio il governo, indaffarato a contenere i capricci di Matteo Renzi invece che preoccuparsi del virus che già si stava velocemente diffondendo, fissava la data del referendum confermativo a domenica 29 marzo. I partiti erano all’epoca tutti a favore del Sì, preoccupati di passare per sostenitori della “casta” qualora sostenessero il No. Non c’ era partita.
Da fine febbraio però inizia il caos. Il virus spazza via il referendum del 29 marzo e le elezioni regionali di fine maggio. Tutto rinviato al 20-21 settembre, sempre che il governo ci faccia votare e non approfitti dell’aumento dei contagi – seppur in assenza di morti e con un numero bassissimo di ricoverati in terapia intensiva – per sospendere nuovamente le votazioni. La gestione del virus ha però mostrato un “metodo di governo” che getta nuova luce sul taglio del numero dei parlamentari.
Durante la Fase 1 dell’epidemia, ma in realtà anche dopo, il Parlamento è stato completamente esautorato. Il governo emanava i decreti-legge coi quali autorizzava se stesso a limitare i diritti e le libertà fondamentali costituzionalmente garantite, il presidente del Consiglio agiva con semplici Dpcm, atti amministrativi privi di forza di legge. Il Parlamento è stato chiamato soltanto a convertire in legge i decreti-legge dell’esecutivo. Un mero ruolo di ratifica. Eppure, nella limitazione delle libertà personali, le Camere avrebbero dovuto svolgere un ruolo fondamentale ex-ante e non ex-post.
Da marzo in avanti è stato proprio il Parlamento, da organo centrale dell’assetto istituzionale repubblicano, a trasformarsi in una sorta di “notaio in differita”. Insomma, l’”antiparlamentarismo” è diventato realtà effettiva e tutti abbiamo visto cosa significhi per la tenuta democratica di un Paese. E ora proprio in questa nuova situazione votiamo per ridurre il numero dei parlamentari? Si dirà, per Salvini si tratta di una questione di coerenza. La coerenza vale anche quando si è sostenuto una cavolata e ci si rende conto di questo, ma “per coerenza” bisogna continuare a sostenere la cavolata? D’altronde quando una situazione cambia, anche alcune idee e posizioni possono cambiare, altrimenti si finisce col commettere errori imperdonabili per l’incapacità di non aver saputo leggere – in tempo – i cambiamenti in corso.
L’epidemia non s’è portata via solo le libertà individuali, ma anche il Parlamento: Camera e Senato di 945 membri, più i senatori a vita. Quasi mille rappresentanti del popolo del tutto ignorati dallo strapotere dell’esecutivo, che s’è preso i “pieni poteri” de facto in uno stato di emergenza, auto-proclamatosi tale e oggi persino prolungato in assenza di emergenza. E se un Parlamento di 945 componenti viene esautorato dal governo come avvenuto da marzo in poi, senza che le Camere abbiano avuto alcuna forza per opporvisi, cosa accadrà ad un Parlamento di 600 membri, eletti magari dalle segreterie dei partiti attraverso il sistema dei “nominati”?
La situazione di oggi è dunque completamente diversa da quella dell’ottobre scorso e di sei mesi fa. Bisogna prenderne atto. Qualche giornalone si è già spinto, nei giorni scorsi, a sostenere il No scrivendo che sarebbe una sconfitta del populismo di Matteo Salvini, fautore della riforma. In realtà, lo capiscono anche i bambini, una eventuale vittoria del No sarebbe una sonora sconfitta anzitutto dell’anti-politica del M5S. Populismo e antipolitica non sono la stessa cosa. L’antipolitica ha prodotto il risultato di avere un Parlamento occupato in larga parte non dalle “cuoche di Lenin” ma da incompetenti del M5s che sono solo attaccati alla poltrona. Il populismo oggi significa mandarli a casa il prima possibile e magari già sin d’ora ridurre un po’ i loro privilegi proponendo una riduzione dello stipendio dei parlamentari. Diminuire lo stipendio al posto della diminuzione del numero dei parlamentari. Ecco una proposta che taglia la testa al toro grillino.
Di fronte al radicale mutamento della situazione e della grave emergenza democratica in cui versa attualmente il Paese, ci manca solo la riduzione del numero dei parlamentari. Salvini dovrebbe – a nostro avviso – prendere apertamente posizione e sostenere il No. Lasciare libertà di voto al proprio elettorato, come sta facendo, è già qualcosa ma non basta. Sta facendo solo il verso a Zingaretti che dice Sì, ma lascia libertà di voto. Da marzo in avanti però tutto è cambiato, col Parlamento privato delle sue prerogative, alla mercé del governo. Insomma, politicizzare il referendum e presentare il No come un No ad un governo che in pochi mesi è giunto sino al punto – non dimentichiamolo – di chiudere il Parlamento, potrebbe essere per Salvini l’arma vincente.
Il Pd contrario a questa riforma (ha votato contro tre volte su quattro), per opportunismo alla fine ha deciso per un Sì piuttosto timido, senza avere niente in cambio, nessun correttivo e neppure la legge elettorale. Un fiasco evidente di Zingaretti, costretto ad un Sì senza convinzione per non rompere gli equilibri di governo. Renzi, dal canto suo, difficile che intenda favorire una vittoria dei 5 Stelle su una riforma costituzionale come questa, dopo che proprio i pentastellati si schierarono contro la sua nel 2016, causandone le dimissioni da Presidente del Consiglio. Insomma, Pd e Italia Viva esprimeranno un Sì di facciata in nome del patto di governo, ma non muoveranno un dito per convincere il proprio elettorato a votare a favore del taglio, lasciando così che ognuno vada in ordine sparso.
In questo nuovo contesto Salvini potrebbe cogliere l’occasione per stanare il M5S e trasformare un referendum, su cui il M5S punta tutto per rilanciarsi, in un referendum contro il governo e in particolare contro il M5S, che a parole dice di non volere le poltrone, ma in realtà è ora attaccato alle poltrone più di chiunque altro. Meno poltrone sì, ma tutte quelle necessarie per mantenere a vita in Parlamento la “nuova casta” grillina, i nuovi “professionisti” (si fa per dire) della politica, in barba persino al doppio mandato.
Perché di questo ormai si tratta, di un partito che mira solo alla occupazione di uffici pubblici. Vogliono il taglio dei parlamentari per diminuire i “costi della politica” e poi nominano 450 persone nelle task force, che consigliano al governo le decisioni da prendere sostituendosi ai parlamentari. Il M5S, che subirà perdite consistenti in tutte le elezioni regionali (con esclusione di Campania e Puglia) cercherà di bilanciare la sconfitta con il Sì al referendum, intestandosi la vittoria. Tutto qui.
Se passasse il No, sarebbe la fine del M5S che in tutti questi anni di governo – a parte il reddito di cittadinanza per acchiappare voti al Sud – non ha portato a casa alcun risultato concreto. Beninteso, il M5S ha avuto il merito di porre al centro del dibattito pubblico il problema della povertà, ma non si può certo dire che lo abbia risolto con il reddito di cittadinanza o con l’ottimo stipendio che da parlamentari si sono garantiti e che – se non sbagliamo – non restituiscono in parte neppure più, come accadeva agli inizi, ad un fondo per le piccole e medie imprese in difficoltà. Il taglio del numero dei parlamentari è dunque ormai solo fumo negli occhi per nascondere la realtà di un partito che, privo di qualsiasi visione e di strategia, lotta solo per rimanere al potere il più a lungo possibile.
Una vittoria del No al referendum, con il sostegno di Salvini, rappresenterebbe il tramonto non del sovranismo ma del grillismo e al contempo dimostrerebbe il fallimento politico di Zingaretti che avrebbe inutilmente ceduto alla demagogia pentastellata sul referendum. E con la vittoria di Salvini in Toscana difficile, ma stando agli ultimi sondaggi non più impossibile, non sarà facile per Conte continuare a campare con la costruzione di “una seconda ondata”.
Con quindici Regioni complessivamente al centrodestra, “virale”, in senso buono, diventerà di nuovo Salvini e sarà la Lega ad avere la sua “seconda ondata”.