“Che il regime iraniano continui a comportarsi da padrone a casa d’altri, lo sappiamo. L’ha fatto prima, lo fa adesso, lo farà in futuro”, dice. Fino a quando? “Finché continueremo ad avere, anche in Italia, persone che chiudono gli occhi davanti alle repressioni dell’Iran”, per esempio. A parlare è Ferminia Moroni, vedova di Mohammad Hossein Naghdi, membro e rappresentante in Italia del Consiglio nazionale della Resistenza iraniana, assassinato il 16 marzo 1993 in un attentato terroristico a Roma, in via delle Egadi.
Due colpi di mitragliatrice Skorpion 7.65 (la stessa utilizzata per uccidere Aldo Moro) con silenziatore e numero di serie abraso: uno in testa e uno nel collo (il terzo rimase bloccato in canna). Il suo nome era in cima a una lista del regime ritrovata successivamente a Berlino: era tra i principali oppositori da colpire. Giunto in Italia nel 1981 in qualità di incaricato d’affari presso l’ambasciata dell’Iran a Roma (allora la carica più alta della rappresentanza), nel marzo dell’anno successivo aveva deciso di rompere con la Repubblica islamica, deluso dalla deriva oscurantista della rivoluzione guidata dall’ayatollah Ruhollah Khomeini. Riconsegnò il suo passaporto diplomatico alle autorità italiane e divenne uno dei leader della Resistenza iraniana in Italia.
Formiche.net ha raggiunto la vedova di Naghdi telefonicamente. Non parla molto volentieri, vive isolata da un po’ di tempo ed è felice così, racconta. “Secondo me si può anche decidere di avere dei rapporti economici confacenti per il tuo popolo”, aggiunge con parole che trasudano la delusione di questi 27 anni. “Però devi chiedere anche qualcosa in cambio”. Che cosa? “Per esempio che le persone non vengano sfruttate, arrestate deliberatamente, represse e che si tengano elezioni veramente libere, come dovrebbe accadere nei rapporti con qualsiasi tipo di dittatura”, dice Moroni.
Dagli archivi di Repubblica rispuntano i suoi racconti di 27 anni fa: “Lo sapevo, lo sapevo che per lui non c’era scampo, che il regime iraniano l’avrebbe ucciso”, diceva. Ed è sempre lei che aveva raccontato come tre giorni prima del delitto incontrò “per caso”, assieme al marito, due tizi che gli promisero la morte.
A distanza di 27 anni, la giustizia italiana ancora non ha dato un volto e un nome ai sicari — di “giudizio a lungo ostacolato dalla ragion di Stato (leggi ricchi contratti in Iran)”, scriveva Guido Olimpio. Ma, come sottolineato dal giornalista Dimitri Buffa sulle colonne dell’Opinione quattro anni fa, “nelle due sentenze scritte nel 2006 e nel 2008, di primo grado e di appello, almeno si capisce la catena di comando dei mandanti. Che inizia proprio con una fatwa di Khomeini stesso nei primi anni Ottanta, poi ribadita dal suo successore Khamenei nei primi anni Novanta”. In mezzo alla catena di comando e prima degli attualmente ignoti esecutori, continuava Buffa, “tutto lo staff diplomatico in Italia dell’epoca, a cominciare dall’ex ambasciatore Hamid Abutalebi, oggi capo di gabinetto del leader del presunto nuovo corso di Teheran, Hassan Rouhani”. Il problema del processo? L’individuazione “della vera identità di questo Assl Mansur Amir Bozorgian, presunto capo della cellula incaricata di uccidere i dissidenti in Italia, e di stanza all’ambasciata a Roma”, notava ancora Buffa.
È stata la storia di Danial Kassrae, un ventinovenne iraniano (che però i media albanesi chiamano con insistenza come “italoiraniano”) espulso dall’Albania e rispedito in Italia, accusato di spionaggio per conto del ministro dell’Intelligence iraniano (Mois) in Albania, ad aver fatto riemergere le preoccupazioni di quegli iraniani che negli anni hanno trovato rifugio in Italia. Come raccontato da Formiche.net, l’obiettivo principale di Kassrae sarebbe stato acquisire informazioni sui Mujahedeen-e-Khalq (Mek), uno dei principali gruppi d’opposizione al regime di Teheran che ha la propria base a Manza, vicino Durazzo. Alcuni dei dissidenti riparati in Italia raccontano le maggiori difficoltà a ottenere la cittadinanza italiana rispetto a chi, invece, è schierato con il regime. Altri lamentano una situazione che oggi, come due decenni fa, vede l’Italia chiudere un occhio davanti ai diritti umani. Come Moroni.
E forse non è un caso che in questi giorni sia tornato a circolare tra i dissidenti iraniani in Italia un commento firmato da Marcella Emiliani sull’Unità dopo l’uccisione di Naghdi, avvenuta poco più di due settimane dopo l’attentato al World Trade Center. Accusando l’Occidente di aver “finto di dimenticare di quale pasta fosse e sia fatto il regime degli ayatollah”, scriveva: “Se si arriva a colpire al cuore Satana in persona, ovvero gli Usa, finora risparmiati da queste forme di terrorismo, figurarsi quale sarà la sorte di tutti quei gruppuscoli d’opposizione mediorientale che proprio in Occidente hanno trovato rifugio, asilo e qualche forma stitica di appoggio politico”.