Ci sono tre difetti che una riforma costituzionale non dovrebbe mai avere. Il primo è di essere troppo controversa. Il secondo è di essere troppo strumentale. Il terzo è di essere troppo barattata. Ebbene, la riforma che viene sottoposta a referendum il 20-21 settembre li ha tutti e tre, questi difetti.
Primo. Quel testo è stato scritto con furore da autori grillini che all’epoca si dedicavano a una finta guerra contro la casta e a una guerra vera contro le migliori tradizioni politiche del paese. Dunque, non nasce da un lavoro di tessitura tra opinioni diverse. Ma piuttosto dalla smania di piantare la propria bandierina contro partiti e culture di segno diverso.
Secondo. È una riforma (parola assai generosa) che serve più che altro a questo punto a dare una mano di vernice al populismo grillino, i cui bagliori si vanno spegnendo a fronte di una prova di governo perlomeno mediocre e di una quantità di contorsioni che fanno impallidire il fantasma del povero Depretis – il padre del trasformismo.
Terzo. È una moneta di scambio tra i due partner della maggioranza per tenerne in piedi il simulacro. E infatti il Pd, dopo aver votato contro le prime tre letture, si è acconciato ad un voto favorevole la cui unica spiegazione sembra essere quella di sostenere il governo e aprire la strada a un’alleanza strategica con il M5S. Così la sudditanza di Conte (1) a Salvini si rovescia nella deferenza del Pd a Conte (2).
Ora, pretendere che soffi lo spirito costituente al modo in cui lo invocava Benedetto Croce all’inizio dei lavori dell’Assemblea (quella Assemblea) è forse un po’ troppo. Ma qui, ascoltando le perorazioni degli araldi del “si”, siamo largamente al di sotto del troppo poco. A me pare che solo un robusto “no” potrà riportare il gioco istituzionale dentro l’alveo delle buone regole che dovrebbero presidiarlo.