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Il destino della Tunisia tra il rebus immigrazione e l’impasse politica

Di Clara Capelli

(La prima parte di questa analisi è stata pubblicata sabato 8 agosto e si trova a questo link)

Il 13 novembre 2019 Ghannouchi viene eletto presidente dell’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo grazie anche ai voti di Qalb Tunes ed El Karama. Di Nidaa Tunes non rimane nulla, implosa e disgregatasi su conflitti di potere interni. Da acerrimi antagonisti, Karoui e Ghannouchi cessano di accusarsi di essere rispettivamente “un corrotto” e un “sostenitore del terrorismo”, per formare un’alleanza che il giornalista e analista Thierry Brésillon descrive sostanzialmente come un cartello di potere che alterna conflitti e compromessi. I mesi invernali sono caratterizzati da lunghi negoziati per la composizione del governo: Ghannouchi spinge per il suo candidato Habib Jemli, il quale non ottiene però la fiducia parlamentare; alla fine è appunto Fakhfakh, scelto da Saïed a formare il 27 febbraio un governo di indipendenti, esponenti in prevalenza di Ennahda e Attayar (“Corrente democratica”, formazione social-democratica guidata dall’avvocato Mohammed Abbou, terza alle elezioni del 2019 con 22 seggi). 

La Tunisia si trova dunque in un’impasse politica tra un parlamento traballante su fragili equilibri partitici e una presidenza forte, arma a doppio taglio perché se da una parte la figura del presidente può contribuire a ribilanciare e tenere le redini della classe politica, dall’altra il rischio di cesarismo è forte, come la storia di autocrazia del Paese bene dimostra. I mesi a venire saranno sicuramente cruciali per comprendere gli sviluppi di questo capitolo della transizione tunisina, ma è altrettanto importante interrogarsi su quanto il disfarsi e ricomporsi delle alleanze politiche sia andato a detrimento di una nuova progettualità per l’economia del Paese, come ha giustamente notato la politologa Giulia Cimini in suo articolo per Affari Internazionali. Se “l’emergenza migranti” dalla Tunisia è stata spiegata con la severa crisi economica che ha colpito il Paese a causa della pandemia di Covid-19 e del conseguente blocco delle attività, è pur vero che l’urgenza dei strutturali problemi socio-economici è riconosciuta da tempo, praticamente dalle rivolte del 2010-2011 che portarono alla fuga di Ben Ali. 

L’economia tunisina soffre indubbiamente di un endemico problema di pervasiva corruzione e nepotismo, non è un caso infatti che la campagna elettorale di Saïed abbia largamente insistito sulla lotta alla corruzione (Mechichi stesso ha lavorato presso la Commissione nazionale anti-corruzione istituita nel 2011). Tuttavia, corruzione e nepotismo non sono sufficienti a spiegare un tasso di disoccupazione al 15% (35% per quella giovanile), stimato in aumento fino a oltre il 20%, né la presenza di cospicue sacche di informalità ed emarginazione (il tasso di partecipazione alla forza lavoro è intorno al 45%, mentre il settore informale rappresenterebbe circa la metà del PIL del Paese). 

Le criticità socio-economiche della Tunisia si raccontano nelle proteste e nelle rivolte che hanno segnato gli ultimi anni. Non episodi di cronaca, ma momenti che segnano il percorso storico del Paese. Innanzitutto bisogna rammentare ancora una volta che l’origine della “rivoluzione della dignità” (thawrat al-karama, il riferimento ai gelsomini non è generalmente apprezzato in loco, perché orientalista) è Sidi Bou Zid, capoluogo di uno dei governatorati più poveri ed emarginati della Tunisia; si potrebbe proseguire con il gennaio 2016 e il sit-in di Kasserine, in un altro governatorato “ai margini”; dinamiche analoghe si osservano nel gennaio 2018, contro gli aumenti del carico fiscale prevista dalla legge finanziaria.  Mentre si discute su come interrompere i flussi di sbarco dall’Italia alla Tunisia, i riflettori hanno brevemente fatto luce sulle mobilitazioni di questa estate a El Kamour, nel governatorato di Tataouine; tuttavia, la questione di El Kamour si trascina da lunghi anni, già nel maggio 2017 si erano invocati con un sit-in e varie azioni di blocco stradale la redistribuzione di profitti petroliferi per la creazione di posti di lavoro e interventi di miglioramento delle condizioni di vista dell’area. 

Ricomponendo questi tasselli, ne risulta uno scenario contraddistinto da una Tunisia “a due velocità”: semplificando, quella delle zone litorali e quella delle regioni dell’interno, queste ultime caratterizzate da una cronica carenza infrastrutturale, elevati livelli di povertà e disoccupazione e un modello economico marcatamente estrattivo, in cui rendite e profitti affluiscono appunto verso i centri della costa senza alcuna significativa riperequazione. In aggiunta a ciò, come tanti Paesi in via di sviluppo, la Tunisia è fortemente dipendente dalla domanda e dai capitali stranieri, basando gran parte della propria economia su turismo ed esportazioni di servizi e prodotti che hanno come unico vantaggio comparato il basso costo della manodopera. Se è indubbio che il lockdown abbia messo in ginocchio il settore turistico (circa 10% del PIL), già in difficoltà dalle rivolte del 2010-2011 e successivamente dagli attacchi terroristici del 2015 (Bardo, 18 marzo, e Port El Kantaoui, 26 giugno), è anche opportuno precisare che questo ambito si distingue per la profonda diseguaglianza – con concentrazione dei proventi nelle mani di pochi – e da un generale asprissimo contenimento salariale. 

Sebbene le forze politiche riconoscano pubblicamente la questione delle disparità regionali, il decennio trascorso dalla caduta di Ben Ali non ha di fatto portato ad alcune transizione del modello economico. Lo scollamento tra centro e periferia non è stato colmato, nessun avvicinamento del potere alle istanze locali dell’elettorato, un fallimento in cui si inseriscono i deludenti risultati di affluenza delle elezioni municipali del 2018. La classe imprenditoriale è rimasta ripiegata sulle pratiche sopra descritte, mentre la classe politica tutta non è stata capace di elaborare strategie alternative alla rincorsa – spesso per altro maldestra – dei capitali stranieri, come suggeriscono i poveri risultati sia della legge sul partenariato pubblico-privato, sia della Conferenza per l’Investimento Tunisia 2020 del novembre 2016. Anche la comunità internazionale dei donatori non ha saputo incidere per indirizzare un cambiamento di rotta verso un percorso di sviluppo maggiormente inclusivo, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale con le draconiane condizionalità – incluso il deprezzamento del dinaro, che ha fortemente aumentato l’inflazione – richieste per un sostegno finanziario di 3 miliardi di euro su 4 anni, l’Extended Fund Facility. 

L’emarginazione socio-economica può essere materia di analisi accademica, ma probabilmente si può rendere giustizia alle ragioni che inducono una persona a migrare solo attraverso gli strumenti dell’arte, come hanno per esempio fatto le fotografie di Zied Ben Romdhane del bacino minerario di Gafsa, altra regione alle periferia del mondo, oppure il film Le Visage de Dieu dell’attore e regista Barham Aloui, la cui storia parte dal nord-ovest tunisino. Ma mentre la Tunisia si prepara al suo settimo governo post-rivoluzionario, è cruciale provare a ricalibrare lo sguardo, tenendo insieme migrazioni, periferie e accordi di palazzo, in un quadro che sappia mostrare come la cronaca di questi giorni sia la manifestazione di una crisi e di un conflitto assai più profondi e complessi.

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