“Sembra improbabile che l’Iran si impegni in negoziati diplomatici con l’amministrazione del presidente Donald Trump prima delle elezioni statunitensi. Tuttavia, la comunità internazionale potrebbe trovare l’Iran pronto a prendere in considerazione un ritorno ai negoziati nel 2021 — indipendentemente dai risultati di novembre — a causa dell’interesse a coinvolgere un’amministrazione Biden o nel tentativo di evitare altri quattro anni della campagna di ‘pressione massima’ dell’amministrazione Trump”. È la conclusione a cui arrivano gli esperti del Center for a New American Security, think tank di Washington che tanti suoi esperti ha visto assunti nelle due amministrazioni Obama e che oggi è guidato da Richard Fontaine, già consigliere per la politica estera del senatore repubblicano John McCain. E a confermare i segnali che indicano come sia difficile tornare a parlare di un nuovo accordo prima del prossimo anno, anche la notizia delle dimissioni del rappresentante speciale degli Stati Uniti per l’Iran, Brian Hook.
Il rapporto dal titolo Reengaging Iran. A New Strategy for the United States sottolinea un elemento che potrebbe rappresentare il punto di partenza per un’intesa da parte iraniana: la consapevolezza di Teheran che senza un sostegno bipartisan del Congresso statunitense al nuovo accordo, questo nasce zoppo come il precedente. Infatti, “la mancanza di supporto bipartisan per il Jcpoa alla fine ha creato l’ambiente in cui Trump ha scelto di ritirarsi dall’accordo”, scrivono gli esperti.
L’AGENDA
Tre gli obiettivi chiave per la strategia diplomatica degli Stati Uniti verso l’Iran. Primo: impedire all’Iran di avere la bomba atomica. Secondo: contenere l’impatto delle politiche regionali iraniane che stanno danneggiando gli interessi degli Stati Uniti. Terzo: ridurre le tensioni regionali che perpetuano l’instabilità e la competizione alimentata per procura in Medio Oriente.
Altrettante sono le fasi di reingaggio suggerite. La prima, de-escalation: gli Stati Uniti dovrebbero impegnarsi e ridurre il conflitto regionale e congelare il programma nucleare iraniano; inoltre, dovrebbero compiere gesti di fiducia unilaterali come l’abolizione del divieto di viaggio dall’Iran e l’allentamento di sanzioni ai funzionari di Teheran come il ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif; infine, dovrebbero sostenere un pacchetto post coronavirus del Fondo monetario internazionale. La seconda, consultazione: revisione interna agli Stati Uniti (Congresso e amministrazione) e coinvolgimento degli altri membri del P5+1 (Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Cina), Arabia Saudita, Israele e altri attori del Medio Oriente. La terza, negoziazione su doppio binario: da una parte il programma nucleare (approccio “more for more”), dall’altra la riduzione della scala regionale. Quest’ultima fase, scrivono gli esperti, “potrebbe iniziare dopo che un nuovo presidente iraniano si sarà insediata nell’estate del 2021”.
I PARTNER INTERNAZIONALI
Gli esperti del Cnas si soffermano sui partner internazionali coinvolti nel dossier iraniano: Israele, Paesi del Golfo, Europa, Russia e Cina. In particolare, notano come l’Unione europea, pur frustrata dall’amministrazione Trump, sia disposta a correggere il patto nucleare Jcpoa e ad affrontare le crescenti tensioni regionali. Quanto alla Russia, invece, la definiscono “un attore importante nei nuovi negoziati con l’Iran, in particolare sulla questione nucleare”, vista la convergenza con gli Stati Uniti sulla necessità di prevenire l’accesso di Teheran all’arma nucleare iraniana. E la Cina? “I cinesi sono un importante partner commerciale per l’Iran e un importante acquirente di petrolio iraniano”, scrivono. “È molto probabile che sostengano qualsiasi sforzo che dia loro un maggiore accesso economico all’Iran ed eviti il conflitto regionale o il perseguimento iraniano di un’arma nucleare”.
BIDEN O TRUMP?
L’interesse a ingaggiare un’amministrazione Biden e la disponibilità di quest’ultima a ripristinare l’agenda internazionalista degli Stati Uniti potrebbero aprire la strada a una nuova intesa in caso di vittoria del candidato democratico alla Casa Bianca.
Invece, la necessità dell’Iran e della sua leadership di mettere fine ai quattro anni di “massima pressione” da parte degli Stati Uniti su un Paese in difficoltà economiche, sociali e sanitarie sono l’opportunità per Trump di tornare ai tavoli negoziali. Ciò rappresenterebbe inoltre l’applicazione del suo principio “bastone e carota” (già visto in azione con la Corea del Nord, con scarsi risultati però) e dei suoi impulsi a riscrivere gli accordi internazionali degli Stati Uniti. Senza dimenticare che un deal con l’Iran rappresenterebbe un’eredità pesante, in particolare dopo aver cancellato, uscendo dal Jcpoa, quella del predecessore Barack Obama. C’è un ma, secondo gli esperti del Cnas: Trump deve rinunciare al suo desiderio di incontrare pubblicamente Hassan Rouhani, una richiesta “strategicamente superflua e un impegno impossibile” per il presidente iraniano. Anche perché, continuano, le elezioni in Iran si avvicinano e un cambio al timone non sembra affatto da escludere.
Con una nuova amministrazione Trump, però, l’accordo potrebbe essere meno ampio, vista anche la diffidenza di Teheran dopo il ritiro degli Stati Uniti dal Jcpoa, la campagna di “massima pressione” e l’uccisione del generale Qassem Soleimani.