L’intervista rilasciata all’HuffPost da Hu Kun, presidente Europa occidentale del colosso cinese Zte e ceo Italia, sta facendo discutere gli addetti ai lavori. Nel colloquio il manager cinese con master alla Bocconi ha toccato diverse questioni: tra queste, i rischi del 5G (“Finora non ci sono prove del rischio per la salute”, ha spiegato, in linea con i risultati dell’indagine della commissione Trasporti della Camera sulle nuove tecnologie nelle telecomunicazioni presentati questa settimana) e la presenza del gruppo in Italia (citando lo Zirc dell’Aquila e il lavoro con i partner Wind3 e Open Fiber, ma anche il primo centro europeo per la sicurezza informatica a Roma).
Proprio tre risposte su quest’ultimo tema hanno attirato diverse attenzioni. La prima: “Negli ultimi anni, ho visto i grandi sforzi del governo italiano per eliminare i vari ostacoli al dispiegamento delle antenne 5G, e anche gli sforzi per promuovere un ecosistema. Saremo lieti di continuare a contribuire a questo sviluppo”. La seconda: “Interpreterei l’approvazione della golden power come la preoccupazione sulla sicurezza informatica. Come ho già detto in altre occasioni, il rischio per la sicurezza informatica è gestibile con un approccio scientifico”. La terza è la risposta alla domanda “Cosa vi distingue da Huawei?”: “Zte è un’azienda assolutamente trasparente, siamo quotati sia alla borsa di Hong Kong che a quella di Shenzhen e rendiamo la nostra azienda conforme a qualsiasi codice internazionale”.
IL RAPPORTO ZTE-HUAWEI
Da queste tre risposte emergono altrettanti elementi. Il primo: Zte cerca di rientrare in partita in Italia. Il secondo: Zte tende a ridurre il rischio sicurezza a una questione scientifica, escludendo quella legata al rapporto con il governo cinese e le sue agenzie di intelligence. Come? Ecco il terzo e ultimo elemento: presentarsi come alternativa a Huawei. La comunicazione di Zte (meno aggressiva e quantomeno all’apparenza sganciata dai giochi diplomatici) cerca di distanziare il gruppo dal colosso di Shenzhen: i due, infatti, sono entrambi oggetto della stretta di sempre più Paesi occidentali. Compresa, l’Italia: il giro di vite deciso nel Consiglio dei ministri di lunedì 6 luglio e rivelato da Formiche.net vede, infatti, Huawei e Zte che rischiano di finire soffocati fra le nuove maglie normative.
Ma non soltanto il Consiglio dei ministri non distingue tra i due operatori cinesi. Anche il Copasir, nel documento del dicembre scorso sul 5G, invitava il governo a “considerare molto seriamente” l’esclusione dalla rete delle aziende cinesi accusate dall’intelligence e dall’amministrazione statunitensi di spionaggio e di dipendenza dal Partito comunista cinese, come Huawei e Zte. E, come notato dall’esperta Janka Oertel in una recente pubblicazione dell’Ecfr sulla sovranità digitale europea, la fiducia verso la Cina (potremmo azzardare verso il sistema Cina) è diventata una questione fondamentale per gli europei, in particolare in seguito al coronavirus.
LE DICHIARAZONI USA
L’intervista al manager Zte va letta assieme alle dichiarazioni del dipartimento di Stato statunitense riportate oggi dalla Stampa: “Consentire a fornitori inaffidabili come Huawei, soggetti agli ordini del Partito comunista cinese, di controllare il 5G, rende sistemi cruciali vulnerabili a interruzione, manipolazione, spionaggio, e mette a rischio delicate informazioni governative, commerciali e personali”, ha spiegato al quotidiano torinese un funzionario di Foggy Bottom.
Una dichiarazione che conferma come il colosso di Shenzhen non sia l’unico oggetto delle preoccupazioni di Washington. Come, d’altronde del Copasir, che a dicembre indicava in due leggi cinesi (la National Security Law e la Cyber Security Law) le “specifiche disposizioni legislative” in virtù delle quali “in Cina gli organi dello Stato e le stesse strutture di intelligence possono fare pieno affidamento sulla collaborazione di cittadini e imprese”.
IL DIBATTITO IN ITALIA
Questi due articoli domenicali confermano l’importanza dell’Italia nel 5G e la battaglia in corso sul nostro Paese tra Stati Uniti e Cina. L’intervista all’HuffPost, titolata “Hu Kun (Zte): ‘Grazie al governo continueremo a investire in Italia sul 5G’”, è suonata a molti come un tentativo dell’azienda di tirar per la giacchetta il governo mettendo sul piatto gli investimenti passati e futuri.
E non è stato l’unico tentativo di provare a invertire la rotta atlantista italiana fatta recentemente. Basti pensare che questa settimana il capo della Farnesina, Luigi Di Maio, ha avuto un colloquio in videoconferenza con l’omologo cinese Wang Yi. Una chiacchierata di cui abbiamo avuto due versioni diverse. Secondo Pechino la Cina avrebbe chiesto all’Italia di rimanere “indipendente” davanti a “certi Paesi” che tentano di intromettersi nel loro rapporto (leggasi: Stati Uniti). Inoltre, l’Italia avrebbe ringraziato il governo cinese per l’aiuto contro il coronavirus proponendosi di “fare da ponte negli affari internazionali” agevolando il dialogo tra Cina e Unione europea. Una versione che però non trova conferme nella scarna nota della Farnesina che cita i seguenti temi al centro del colloquio: “Il rilancio del partenariato economico e l’export di prodotti agroalimentari; la lotta al Covid-19 e la cooperazione globale per un vaccino; la transizione digitale; la situazione a Hong Kong e la tutela dell’autonomia”.