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Medio Oriente, perché per Biden la strada è in salita. Analisi di Lucio Martino

Di Lucio Martino

Posto che le elezioni presidenziali sembrano ancora aperte a ogni risultato, è ormai tempo di chiedersi cosa potrebbe cambiare nella politica estera e, più precisamente, nella politica mediorientale, nel caso in cui l’ex vicepresidente Joe Biden riuscisse a conquistare la Casa Bianca.

A differenza del presidente in carica, se Biden arriverà alla Casa Bianca vi arriverà forte di una lunga carriera politica e circondato da uno staff di esperti dalla comprovata esperienza. Cosa questa che permette già oggi d’immaginare, con una qualche credibilità, quelle che potrebbero essere le continuità e le discontinuità in questo campo con il suo predecessore. La tentazione è quella di presumere che Biden cercherà semplicemente di riportare l’orologio indietro di quattro anni e di riprendere da dove aveva lasciato l’amministrazione Obama. Il problema è che, come sempre in questi casi, nel frattempo sono cambiate così tante cose che una tale opzione sembra tanto impossibile quanto indesiderabile.

Negli ultimi trentacinque anni, due particolari decisioni hanno segnato l’inizio e la fine dell’impegno militare statunitense in Medio Oriente. La prima è stata la scelta dell’amministrazione Reagan di proteggere le petroliere kuwaitiane nel bel mezzo della guerra tra l’Iran e l’Iraq. La seconda si è risolta nel rifiuto da parte dell’amministrazione Trump d’intervenire visibilmente in difesa dell’Arabia Saudita nello scorso settembre, all’indomani dell’attacco contro gli impianti petroliferi di Abqaiq e Khurais. Per riversare quella contrazione della presenza statunitense che ha reso il Medio Oriente una regione aperta a tutti, tanto che anche Paesi fino a ieri dalle ambizioni tutto sommato limitate, come l’Arabia Saudita, l’Egitto e la Turchia, stanno ora vivendo un periodo d’interventismo egemonico, Biden dovrà trovare soluzioni nuove a vecchie e non facili questioni, quali il futuro del conflitto israelo-palestinese, la sicurezza del Golfo Persico, l’esito delle guerre in Libia, in Siria e in Yemen oltre all’esigenza di non pochi Paesi europei di ridurre il volume dei flussi migratori.

Biden dovrà trovare quel delicato equilibrio che gli permetta da una parte di ritornare a garantire la sicurezza e la stabilità del Medio Oriente e dall’altra di non restarne impantanato nei tanti conflitti. Almeno per il momento, tale ricerca si preannuncia tutt’altro che facile, anche perché Biden non sembra disporre del capitale politico necessario per operare con successo una simile manovra, in quanto membro di spicco di un’amministrazione che, nella migliore delle ipotesi, si è dimostrata poco convinta dell’opportunità d’intervenire in Libia e in Siria, non è riuscita a impedire all’Arabia Saudita di lanciarsi in una guerra disastrosa in Yemen e, di fatto, ha avviato il ritiro degli Stati Uniti dall’intero scacchiere mediorientale, consentendo alla Repubblica Popolare Cinese e alla Federazione Russa di espandere decisamente la propria influenza. Ne consegue che una futura amministrazione Biden troverà difficile, se non impossibile, implementare efficacemente nuove e significative politiche in questa regione senza l’appoggio di potenze le cui agende sono molto diverse e distanti dalla propria.

Sotto questo punto di vista, è poi necessario notare come Biden potrà contare su strumenti quasi esclusivamente diplomatici, perché un qualsiasi intervento militare diverso da quelli già in atto non sembra alla sua portata per via di un’opinione pubblica stanca delle interminabili guerre mediorientali e incapace di concepire il Medio Oriente come strategicamente importante, almeno da quando gli Stati Uniti hanno raggiunto l’autosufficienza energetica.

Indipendentemente dall’esito delle elezioni della Camera e del Senato, è inoltre molto probabile che Biden andrà incontro a una forte opposizione interna nei confronti di alcuni dei suoi obiettivi regionali, a iniziare dall’intenzione di costringere Israele a non intraprendere azioni che potrebbero rendere impossibile la futura organizzazione di uno Stato palestinese. Sebbene non sembra abbia alcuna intenzione di annullare la tanto controversa decisione di spostare l’ambasciata statunitense a Gerusalemme, Biden intende riprendere quei programmi di assistenza economica a vantaggio dei palestinesi interrotti dall’amministrazione Trump, e ha in programma di riaprire tanto il consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme Est quanto la missione diplomatica dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina a Washington. Il tutto in un momento nel quale Israele vanta più alleati arabo-sunniti di quanti immaginabili in passato.

Qualora mai l’Iran decidesse di tornare a rispettare i suoi obblighi, Biden si è poi detto disposto a rientrare nel Joint Comprehensive Plan of Action, ma solo come punto di partenza per lavorare, a fianco degli alleati europei e delle altre potenze, al fine di estenderne i vincoli. In altre parole, anche Biden sembra interessato a un accordo più solido di quello varato nel 2015, un nuovo accordo le cui clausole restrittive siano collocate al termine di in un arco temporale molto più lungo di quello deciso per il trattato denunciato dall’amministrazione Trump nel maggio del 2018. In quest’ambito, Biden dovrà poi tener conto delle richieste di una Francia da ultimo interessata a porre sotto un qualche tipo di controllo anche il programma missilistico iraniano a lungo raggio. Quali saranno le probabilità di veloce negoziazione di un simile accordo è un qualcosa di molto difficile da prevedere, mentre sembra quasi certo che in sua mancanza, Biden non potrà prontamente dismettere quella politica di massima pressione esercitata sull’Iran che tanto consenso ha fruttato all’attuale amministrazione da parte degli altri grandi protagonisti regionali. L’Arabia Saudita, in particolare, non sembra davvero entusiasmata dalla prospettiva di un cambio della guardia al vertice degli Stati Uniti. Del resto, nel presentare le proprie priorità di politica estera, Biden non ha mai neppure tentato di nascondere quanto sia complicato il suo rapporto con dei sauditi ai quali, tra le altre cose, non intende più vendere armi e vuole far scontare l’uccisione di Jamal Khashoggi.



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