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Cina, democrazia e tecnologia. La svolta della sinistra Usa (che rinnega Obama)

“Durante gli ultimi 10-15 anni il nostro ruolo di leadership è stato eroso e la nostra forza per fissare standard e protocolli che riflettessero i nostri valori è diminuito. Di conseguenza, altri, ma soprattutto la Cina, hanno riempito il vuoto e promosso standard e valori che di fatto avvantaggiano il Partito comunista cinese”. È un mea culpa rispetto anche all’amministrazione di Barack Obama (e non soltanto verso quella attuale guidata dal repubblicano Donald Trump) quello pronunciato da Mark Warner, membro di spicco del Partito democratico statunitense e vicepresidente del Comitato Intelligence del Senato, intervenuto durante un dibattito organizzato dal National Democratic Institute e intitolato “Democracy, Technology & China: U.S. Strategy for Innovation in the 21st Century”. Un evento — a cui hanno partecipato anche l’ex segretario di Stato Madeleine Albright e Derek Mitchell, rispettivamente chairman e presidente del think tank — che ha permesso di tastare il polso al Partito democratico in vista delle elezioni del prossimo 3 novembre.

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“Mi concentro sulla Cina”, ha continuato Warner, “perché come molti mi sono sbagliato. Ho creduto che integrare la Cina nell’ordine internazionale liberale e interconnetterla con il sistema economico liberale avrebbe portato la Cina ad aprirsi e democratizzarsi. Invece, la Cina ha dimostrato che lo sviluppo e l’uso di tecnologia all’avanguardia e la crescita economica sono comunque possibili all’interno del capitalismo di Stato autoritario”, ha aggiunto il senatore spiegando di puntare il dito non contro il popolo cinese bensì contro il Partito comunista cinese e il presidente Xi Jinping, che stanno sviluppando un sistema di governance tecnologica che “dovrebbe preoccupare tutti noi”. A partire dal tema dei diritti umani, dal controllo che il regime può esercitare sul settore privato, dal ruolo delle aziende cinesi (come Huawei) nelle infrastrutture degli Stati Uniti e dei loro alleati e dalla necessità di puntare su imprese come le europee Nokia ed Ericsson.

Da qui deve ripartire la prossima amministrazione dem guidata da Joe Biden, dice Warner. E le sue parole non sono che una conferma del fatto che, come notavamo nei giorni scorsi su Formiche.net, il Partito democratico ha cambiato approccio verso la Cina. “Chiunque vinca le elezioni presidenziali, una cosa è chiara: gli Stati Uniti hanno voltato pagina nelle relazioni con la Cina ed è probabile che manterranno una linea più dura”, scriveva il Wall Street Journal. Secondo Kurt Campbell, il più alto ufficiale per l’Asia al dipartimento di Stato durante la prima amministrazione Obama, esiste “una consapevolezza diffusa nel Partito democratico che Trump è stato in buona parte preciso nella diagnosi delle pratiche predatorie della Cina”. Il Journal evidenziava come il presidente Trump abbia messo fine a quarant’anni di amministrazioni democratiche e repubblicane che cercavano “di incoraggiare l’integrazione cinese con gli Stati Uniti”. Il cambiamento non si è limitato però al Partito repubblicano. Tanto che, racconta il quotidiano murdochiano, il team della politica estera di Biden, composto in larga parte da ex membri dell’amministrazione Obama, affermato guardandosi alla spalle che l’ex presidente è stato “troppo morbido sulla Cina e troppo lento a riconoscere la tendenza nazionalista e autoritaria del presidente Xi Jinping”.

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