Caro Direttore, con sorpresa e amarezza abbiamo appreso dello stralcio di un emendamento al dl Semplificazioni, approvato nella Commissione VII del Senato, che costituiva una interpretazione autentica dell’art. 6, comma 10 della legge 240/2010, legge che ha liberalizzato le consulenze dei professori universitari.
La norma, ancorché di lapalissiana chiarezza (“I professori e i ricercatori a tempo pieno, fatto salvo il rispetto dei loro obblighi istituzionali, possono svolgere liberamente, anche con retribuzione, attività di consulenza”), è stata oggetto di contrastanti interpretazioni giurisprudenziali. Una nota del capo dipartimento Alta formazione e ricerca del Miur era già intervenuta nel 2019 a riaffermare l’interpretazione liberalizzatrice della previsione. Bene dunque ha fatto il legislatore parlamentare, con il parere favorevole del ministro Gaetano Manfredi, ad intervenire per via emendativa per ristabilire una volta per tutte la portata della norma di legge.
Lo stralcio fatto dal governo alla vigilia del voto di Aula, sulla base di un parere negativo della Ragioneria dello Stato, appare in verità il frutto di una pressione di lobby corporative che paventavano la concorrenza da parte di professori e ricercatori.
La libertà di consulenza, nella osservanza dei prioritari obblighi accademici, risponde ad una rinnovata concezione di università che individua nel trasferimento di conoscenza la cosiddetta terza missione. Questa concezione valorizza al massimo grado il ruolo della ricerca che diventa uno degli elementi decisivi dello sviluppo economico e sociale di un territorio.
Consentire ad una eccellenza accademica di mettere al servizio della società le proprie competenze costituisce una occasione di progresso e una opportunità importante per il cittadino, che può beneficiare del parere di chi ha il massimo grado di competenza. Non casualmente sono proprio i professori universitari che, oltre a formare i futuri professionisti, ne giudicano la idoneità negli esami di abilitazione alla professione.
L’università nasce d’altra parte nel Medioevo per dare risposte a pubbliche autorità e a privati. Irnerio era un “consulente” dell’imperatore Enrico V. Coerentemente, dunque, in tutti i principali Paesi occidentali le consulenze vengono considerate un momento non marginale della attività dell’accademico, e vengono spesso incoraggiate. In molte università straniere un giorno a settimana è lasciato libero per l’esercizio di attività consulenziale. In qualche caso è lo stesso ateneo che ne trae beneficio economico chiedendo al suo ricercatore di versare una quota, in genere non superiore al 20%: una soluzione che in Italia apporterebbe notevoli fondi ad istituzioni in perenne sottofinanziamento.
La ostilità di chi pur attinge dall’università competenze, formazione, collaborazioni di vario genere risulta incomprensibile, anche considerando che un conto è l’attività di consulenza, un altro l’attività libero-professionale, che richiede la iscrizione ad albi e che è senz’altro più impegnativa in termini di tempo dedicato e di organizzazione, tanto che necessita per i professori e ricercatori la scelta di lavorare a tempo definito, con una parallela, consistente decurtazione di stipendio.
La recente vicenda dell’emendamento stralciato è l’ennesima prova della reale considerazione che certa politica ha del mondo universitario e della sottovalutazione del suo ruolo nella crescita del Paese. Un mondo che deve rivendicare la propria dignità e non può più subire trattamenti umilianti.
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