Dopo un periodo di silenzio, Giuseppe Conte è tornato a parlare in pubblico nello scorso fine settimana: sabato alla festa de Il Fatto Quotidiano a Roma e al forum Ambrosetti a Cernobbio e domenica a Trieste, “capitale europea della scienza”. A detta di un po’ tutti i commentatori, di destra e di manca, è stato un mezzo disastro, comunicativo e di sostanza: poco accorto quando si è parlato di politica, malcelando ambizioni quirinalesche; alquanto vago e fumoso, oltre che tronfiamente retorico, quando si è parlato dell’azione di governo e soprattutto dei progetti che il’Italia deve presentare entro il 15 ottobre per poter attingere ai fondi del Recovery Plan europeo.
Stasera, il presidente del Consiglio ha sulla carta l’occasione per “riscattarsi”, ma il palco da cui parlerà e la città che lo ospita rendono davvero non facile l’impresa. Chi lo ascolterà non è di “buon palato”, anzi lo è perché non mangia tutto ma solo piatti di sostanza e succulenti come son quelli di questa eccelsa tradizione culinaria. Conte farà il suo esordio, nel cuore della “rossa” Emilia, a Modena, alla Festa nazionale de “L’Unità”, che certo sopravvive a se stessa in ricordo di tempi lontani (in tutti i sensi), ma che pure conserva un valore simbolico non indifferente.
E fa di sicuro un certo effetto che in quel palco che fu di leader severi e rigorosi come Longo e Berlinguer, oggi veda in scena, capo di un governo a cui gli eredi di Gramsci si sono aggrappati quasi come l’ultima speranza, e da una posizione di oggettiva debolezza, un leader tanto smart e fluido da contrastare con il solo ricordo di quella gravitas di altri tempi. D’altronde, anche quel popolo “dei campi e delle officine” che votava il “gran partito dei lavoratori” e sperava nel “sol dell’avvenire”, oggi si è per lo più dissolto.
I nuovi deboli, precari e nemmeno organizzati, votano addirittura a destra, a volte, e i dirigenti di quello che, unico nel panorama italiano, si ostina a chiamarsi “Partito”, e “democratico” per giunta, alla “coscienza di classe” hanno sostituito una cultura identitaria che rincorre le “minoranze” o quelle che presume siano tali. Ma a Modena e dintorni, no… Qualcosa è rimasto, fosse pure e solo nell’aria quel profumo di salsicce e piadine che a sentirlo apre un mondo anche a chi gli ha chiuso le porte. E non è un caso che è qui che si è affermato Bonaccini, uno che è a metà strada fra il vecchio e il nuovo, Sardine comprese, ma che sembrerebbe pronto a emetter fattura il 21 settembre a quel Zingaretti che di Conte è il primo grande elettore.
Saprà districarsi fra queste insidie, il presidente del Consiglio, e soprattutto saprà dare qualche risposta non evanescente ad un popolo concreto, che vuole ripartire nell’industria e sui mercati internazionali e a cui dei teatrini romani poco importa? E di quel compromesso socialdemocratico, o di quel cattolicesimo sociale e dossettiano, fatto di chiusure mentali, non è dubbio, ma anche di buon governo e concretezza, che ne sarà? Non è una flessibilità a buon mercato, fra industria avanzata e welfare di comunità, quella dell’Emilia rossa, non è postideologica ma popolaresca e bottegaia al tempo stesso.
Ora che il “sol dell’avvenire” è scomparso dall’orizzonte, tramontato, sulla sostanza gli emiliani e romagnoli non transigono. E al monopattino tanto radical chic continuano a preferire la vecchia bicicletta che è sudore e fatica.