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Vittima o risolutrice? Il ruolo della Nato nella crisi tra Grecia e Turchia nel Mediterraneo

La Nato è davvero paralizzata dal confronto tra Turchia e Grecia nel Mediterraneo orientale? È la domanda che Judy Dempsey, non-resident senior fellow di Carnegie Europe e direttore di Strategic Europe, ha rivolto a nove esperti delle relazioni transatlantiche. Mai come questa volta nella serie “Judy ask” le risposte sono apparse divergenti. Gli esperti francesi e greci stressano soprattutto le colpe di Ankara, troppo assertiva, colpevole di aver innescato una crisi pericolosa. A ciò si connettono le critiche all’Alleanza, rea di non riuscire a risolvere la situazione, e agli Stati Uniti che hanno abbandonato il ruolo di moderatore globale. Eppure, altrettanti esperti divergono: la Nato non è una vittima della situazione, né colpevole, ma piuttosto l’unico foro dove può essere risolta. Oltre i commenti, una prima risposta fattuale è forse già arrivata da Bruxelles. Il segretario generale Jens Stoltenberg ha annunciato che Ankara e Atene hanno concordato di avviare “technical talks” nel contesto Nato, con l’obiettivo di stabilire meccanismi per la de-escalation e la riduzione del rischio di incidenti.

L’ASSENZA AMERICANA (VISTA DA PARIGI)

Incline a definire l’Alleanza in stato di paralisi è il professore francese François Heisbourg dell’International institute for strategic studies (sulla scia della “morte cerebrale” sentenziata con motivazioni simili da Emmanuel Macron). “Non è una sorpresa che la Nato sia paralizzata”, risponde alla Dempsey. Lo stesso accadde nel 1974 quando Grecia e Turchia si scontrarono su Cipro, solo che allora intervenne “il membro più potente, gli Stati Uniti”, imponendo di fatto un cessate-il-fuoco. Dunque, spiega Heusbourg, “stiamo assistendo oggi a un esempio regionale di ciò che accade in un mondo bipolare in assenza di una convinta leadership americana”, venuta meno secondo lui a partire da quando Barack Obama non tenne la linea rossa sulla Siria ad agosto 2013.

LE COLPE DI ANKARA…

Ancora più chiaro il giudizio sull’Alleanza (in negativo) dell’esperta greca Eleni Panagiotarea della Hellenic foundation for European and foreign policy: “La Nato è paralizzata dalla sua mancanza di leadership, non dal conflitto Grecia-Turchia, progettato da una Turchia sempre più dirompente e antagonista intenzionata a provocare il caos contestando i confini marittimi e i permessi di perforazione”. La “facciata di neutralità” e “l’esternalizzazione della gestione della crisi a potenze esterne” adottate dal segretario generale Jens Stoltenberg non farebbero altro che “rendere un disservizio all’Alleanza”. Per l’esperta servirebbe dunque “un quadro pragmatico e credibile di de-escalation che sfrutti il deterioramento della situazione economica turca”.

… E I LIMITI BUROCRATICI

Le stesse accuse alla Turchia arrivano dall’ambasciatore francese (già rappresentante all’Ue) Marc Pierini, visiting scholar presso Carnegie Europe. Dall’acquisto dell’S-400 russo all’intervento in Libia, “Ankara ha creato un netto malessere all’interno della Nato”, decidendo ora di “portare avanti la politica del rischio”. Dunque, spiega ancora, occorre “trovare il modo di formare le mosse assertive turche e dimostrare che le vie unilaterali e dirompenti non sono la strada da percorrere”. Secondo il professore britannico Julian Lindley-French, presidente e fondatore dell’Alphen Group, l’Alleanza sarebbe invece “abbastanza paralizzata”. Come nel 1974, la crisi attuale dimostrerebbe “i limiti dell’Alleanza come moderatore di interessi nazionali strategici”; limiti derivanti dall’ossessione della burocrazia interna per la coesione e dai meccanismi decisionali basati sul consensus.

PARALISI APPARENTE

Una paralisi solo apparente è invece l’immagine scelta da Elisabeth Braw del Royal United Services Institute: “Due Stati membri in contrasto tra loro influenzerebbero qualsiasi alleanza, ma la Nato è ancora efficace nella sua missione principale: difendere l’integrità territoriale degli alleati contro varie minacce territoriali da altri Paesi e attori non statali”. Concorda Jamie Shea, professore presso l’Università inglese di Exeter: “Il business day-to-day in negoziati, esercitazioni e operazioni procede tutto nella normalità”. È proprio questa tradizionale operatività tra membri che offre il framework ideale in cui ricucire le distanze sul Mediterraneo orientale. In altre parole, “la Nato non è la vittima sfortunata della crisi, ma la chiave per risolverla”. E così, “alla fine sarà necessario trovare una soluzione che dia a tutte le parti un accesso equo alle riserve di petrolio e gas del Mediterraneo orientale, in cambio della rinuncia all’attività militare provocatoria”.

E SE LA NATO FOSSE LA CHIAVE?

Ne è convinto anche il diplomatico turco Sinan Ülgen, visiting scholar presso Carnegie Europe: “L’Alleanza potrebbe sfruttare la sua posizione unica come piattaforma politica che include i principali lati della controversia come suoi membri”. Sulla stessa linea Anna Wieslander, direttore per il Nord Europea presso l’Atlantic Council: “La Nato offre il contesto per la de-escalation”. Eppure “non è sufficiente per guidare la crisi”. Secondo l’esperta, infatti, “la Germania, designata a guidare gli sforzi diplomatici, deve navigare in un ambiente caratterizzato da forti tensioni con la Francia e con Stati Uniti che non spingono più come una volta”.

LA LEADERSHIP TEDESCA

D’altra parte, nota il generale americano Ben Hodges del Center for European policy analysis, l’unico a beneficiare del confronto interno alla Nato è il Cremlino. La soluzione? “La Germania dovrebbe guidare lo sforzo diplomatico come leader nell’Ue e nella Nato, con un forte, chiaro e inequivocabile supporto americano”. Risolvere la situazione è “imperativo”, così come comprendere tra tutti i membri “l’importanza vitale di rafforzare e mantenere i rapporti con la Turchia come alleato e partner economico”.


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