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Cyberdiplomazia, così l’Ue vuole contare nell’arena digitale

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Attacchi informatici, disinformazione (Borrell cita le campagna da Cina, Russia e altri sotto il coronavirus), blackout elettrici, interferenze elettorali, sicurezza del 5G: come può l’Unione europea essere parte di questo mondo e far fronte a queste sfide? La parola chiave è cyberdiplomazia. È quanto sostenuto da Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, nel discorso di apertura della seconda edizione dell’Eu Cyber Forum.

Il capo della diplomazia ha individuato cinque elementi nell’area geopolitica attuale: una concorrenza senza precedenti tra gli Stati; un mondo multipolare ma senza un multilateralismo efficace; l’interdipendenza sta diventando sempre più conflittuale e il soft power è un’arma (commercio, tecnologia, dati, informazioni sono ormai strumenti di competizione politica); una tendenza imperialistica; il rischio di un mondo meno libero e più diseguale. “In breve, il nostro ambiente di sicurezza sta peggiorando”, ha dichiarato Borrell sottolineando la portata dalla sfida tra Stati Uniti e Cina.

UNA SCELTA DI CAMPO?

“Cresce la pressione sull’Europa affinché scelga da che parte stare”, ha continuato l’Alto rappresentante invitando però il blocco a “seguire il nostro approccio ed evitare di essere strumentalizzati dall’uno o dall’altro. Dobbiamo continuare a sostenere soluzioni multilaterali e cercare un terreno comune”. E ciò “vale molto anche per il mondo cibernetico. Sappiamo che il mondo sta diventando più digitale, ma anche più guidato dallo Stato”.

Borrell si interroga su chi e come governerà le reti, su chi stabilirà le regole e gli standard globali e sul ruolo dell’Europa: può “rimanere normatore tecnologico se non è anche un leader tecnologico?” Qui sta la sfida per l’Europa, dice Borrell.

IL COMMENTO DELL’AVVOCATO MELE

“Non si può che accogliere con estremo favore che sia stato finalmente sottolineato il ruolo ormai centrale delle operazioni cibernetiche e dell’utilizzo delle capacità informatiche nelle attuali relazioni tra Stati”, commenta Stefano Mele, avvocato esperto di cybersicurezza, partner dello Studio Carnelutti e presidente della Commissione cibernetica del Comitato atlantico italiano, a Formiche.net. Che però invita a collocare questi elementi nella loro giusta cornice. “Non rappresentato una rivoluzione, ma un mero — seppure efficace — strumento aggiuntivo nel playbook degli Stati, sia all’interno che al di fuori del contesto di un conflitto armato, per il raggiungimento di obiettivi operativi o tattici concreti, inseriti in un più ampio quadro strategico e geopolitico. Sono, quindi, uno dei pezzi del puzzle, non il puzzle nella sua interezza”. In questo senso, secondo l’avvocato Mele “qualsiasi ‘attività difensiva’ che sia inserita nel più ampio spettro della competizione tra Stati o nella dinamica di un conflitto, oggi più che mai dovrebbe essere strettamente legata anzitutto a un concreto sforzo diplomatico”. Sforzo che, continua, “potrebbe trovare nella diplomazia preventiva un’arma vincente”.

Mele ravvisa un errore: quello di “continuare a guardare al ciberspazio come a una ‘terra di nessuno’ e senza regole giuridiche”. Una visione oggigiorno corretta solo in parte, spiega: “La decisione di uno Stato di preparare e attuare operazioni cibernetiche è disciplinata da regole, principi, pratiche e consuetudini del diritto internazionale e delle relazioni internazionali. Questi elementi oggettivi continuano — e continueranno — a garantire l’applicazione della diplomazia preventiva, indipendentemente dai mezzi e dalle metodologie utilizzati dagli Stati, sia in tempo di pace che in caso di conflitto”.

L’auspicio quindi, osserva Mele, è che “sempre di più gli sforzi diplomatici dei singoli Stati, così come quelli dei singoli Stati nei contesti internazionali, si concentrino anche sulle attività di diplomazia preventiva, che significa focalizzarsi sulle attività di negoziazione, mediazione e facilitazione del dialogo, così come sull’applicazione delle regole e dei principi esistenti del diritto internazionale o sull’individuazione di possibili nuove norme — vincolanti o non vincolanti — utili allo scopo, ovvero infine sulla creazione di meccanismi per costruire e sostenere la fiducia tra gli Stati e tra gli Stati e gli altri attori rilevanti”. Strumenti, conclude, che sono “già da tempo ampiamente utilizzati in altri contesti tanto da poterli ormai considerare come familiari e noti, così come più che note sono nella storia le conseguenze del non utilizzarli”.

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