Nel suo intervento di ieri alle Nazioni Unite il Presidente Xi Jinping ha annunciato che la Cina si impegna a raggiungere la neutralità climatica entro il 2060, mentre il livello di picco delle emissioni del paese è previsto prima del 2030. L’annuncio, di portata storica, invoca l’avvio di una rivoluzione verde e crea le condizioni perché siano raggiunti, a livello globale, gli obiettivi che la comunità internazionale si è data a Parigi, senza però mai adottare le misure necessarie per la decarbonizzazione dell’economia mondiale. Il Presidente cinese ha dichiarato che “la razza umana non può continuare a ignorare i ripetuti avvertimenti della natura” e che l’accordo di Parigi è il “minimo necessario” che deve essere fatto se vogliamo salvare la “nostra patria condivisa”. Con questo impegno, la Cina si appresta a realizzare una radicale trasformazione della propria base industriale e a costruire quella “civiltà ecologica” che sembra riecheggiare altri, più alti richiami al senso di un’ecologia integrale. Al tempo stesso, Pechino invoca la cooperazione della comunità delle nazioni e assicura di non perseguire finalità egemoniche. Il primo passo inevitabile sarà la riduzione drastica del carbone.
L’annuncio ha colto di sorpresa la stampa mondiale. Lo stesso non può dirsi invece per chi, nelle capitali europee e a Bruxelles, da tempo tesse le fila di un ormai molto probabile accordo tra UE e Cina su clima e ambiente.
Se la Cina è pronta ad assumersi il rischio di una tale trasformazione sistemica il merito va anche alla determinazione della Commissione von der Leyen e degli stati membri. Dallo scoppio della pandemia, l’Europa ha scelto il Green Deal nella prospettiva del multilateralismo e del sistema di governance internazionale uscito dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale.
Solo qualche giorno fa, nel corso di un dibattito ospitato dal Centro Studi Americani cui ho partecipato con altri esperti ed esperte, Mauro Petriccione, Direttore Generale della DG CLIMA della Commissione, aveva confermato come la Cina fosse ormai molto vicina alle posizioni europee.
Non è forse un caso che lo storico annuncio di ieri sia stato anticipato anche dall’ex capo negoziatore cinese Xie Zhenhua, di recente nominato Special Advisor di Pechino sul clima che è oggi forse l’interlocutore più qualificato di Bruxelles. In un colpo solo, Pechino ha rimosso gli ultimi importanti ostacoli rimasti sul tavolo del negoziato con l’Europa.
COME FUNZIONA L’ACCORDO DI PARIGI
Dall’inizio della rivoluzione industriale – scrivevo nel 2018 su Formiche.net – la temperatura della terra è salita di oltre un grado. Con l’accordo di Parigi i 190 paesi firmatari si sono posti l’obiettivo di contenere l’aumento al di sotto dei due gradi, e se possibile di un grado mezzo. Quest’ultimo risultato non è più raggiungibile e molti dei danni già inflitti al pianeta non saranno sanati. Il trattato di Parigi, senza precisi impegni, non ha prodotto fino ad oggi effetti significativi.
L’accordo prevede infatti che gli stati depositino dopo la ratifica gli Intended Nationally Determined Contributions – INDCs. Gli INDCs sono documenti contenenti gli impegni e il dettaglio delle misure industriali, tecnologiche, finanziarie, fiscali che ogni paese assume per realizzare gli obiettivi del trattato. Senza gli INDCs, Parigi rimane una semplice dichiarazione di intenti. Questi devono essere aggiornati ogni cinque anni.
Analizzando i pochi INDCs depositati fino al 2017, si rilevava come sulla base degli impegni assunti in concreto, nel 2040 il peso dei combustibili fossili sarebbe sceso al solo 70% del totale dei consumi energetici globali. Si tratta di un risultato distante dal 50% previsto a Parigi, soglia minima necessaria per contenere l’aumento della temperatura al di sotto dei famosi due gradi entro la fine del secolo. L’Accordo di Parigi, scrivevo, è sostanzialmente fallito. Dopo trent’anni di promesse senza riscontri, abbiamo bisogno di un nuovo format per i negoziati globali sui cambiamenti climatici e l’ambiente che integri il meccanismo delle COP (Conferenza delle Parti), bloccato attorno agli stessi nodi irrisolti.
LA PIATTAFORMA EU-CINA COME NUOVO FORMAT NEGOZIALE
Questo format può nascere attorno ad una Piattaforma Eu-Cina per il clima e l’economia circolare. Il Green Deal della Commissione von der Leyen nulla è infatti se non la descrizione del percorso tecnologico ed industriale, delle misure concrete e dei tempi di attuazione dei piani che permetteranno all’Unione Europea di raggiungere di rispettare gli impegni presi a Parigi. In parole povere, siamo di fronte agli INDC dell’Unione. Abbiamo davanti a noi una trasformazione radicale. La progressiva sostituzione delle fonti fossili cambierà la matrice energetica e renderà obsoleto il paradigma economico che ha dominato la storia dalla Terza Rivoluzione Industriale e la nostra vita. Una nuova struttura sociale e modelli di consumo differenti emergeranno rapidamente.
Col Green Deal, l’Unione Europea ritrova l’anima perduta e costruisce forse quel mito fondativo che le permetta di parlare al cuore dei propri cittadini. Le nuove generazioni sono le prime destinatarie di questa visione: un’economia pulita, moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse, sostenibile e giusta. Al tempo stesso, l’eccellenza tecnologica, la capacità di innovazione e l’impiego delle migliori tecniche disponibili, assicurano una forte razionalità economica e la realizzabilità di questi obiettivi. Oggi, ed è questa la buona notizia, abbiamo le conoscenze, la maggior parte delle tecnologie e la capacità per raggiungere i nostri obiettivi. Ridisegnare i processi industriali è una sfida e molti cadranno, industrie si fermeranno e altri settori prevarranno. Si tratta però anche di un’enorme opportunità per la competitività del sistema europeo. Gli Stati Uniti, leader nella tecnologia, nell’innovazione, nell’ingegnosità creativa, sono destinati a recuperare il loro ruolo di leadership globale e a guidare l’impegno della comunità internazionale nella guerra per il clima. Ogni ciclo di innovazione matura sulle ceneri del vecchio sistema.