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Libano, perché Usa2020 sarà un banco di prova. Analisi di Bressan

A un mese di distanza dall’esplosione dell’Hangar 12, i soccorritori scavano ancora sotto le macerie, anche a mani nude, in cerca di eventuali sopravvissuti. Le prime conseguenze politiche di quanto accaduto il 4 agosto, vale a dire le dimissioni del premier Diab e la nomina di un nuovo primo ministro incaricato, Mustafa Adib, sembrano collocarsi in uno spazio politico e temporale ben definito. È forse ancora presto per capire le concrete possibilità di Adib, individuato dagli ex premier libanesi e appoggiato di fatto dalle forze politiche che rispondono al presidente Michel Aoun, al presidente del parlamento Nabih Berri, all’ex premier Saad Hariri, al leader druso Walid Jumblatt e a quello di Hezbollah Hassan Nasrallah.

Il timore che l’accordo tra i protagonisti indiscussi degli ultimi 30 anni della vita politica libanese, sia l’ennesima soluzione gattopardesca già serpeggia tra i manifestanti che sono tornati in piazza in concomitanza con la visita del Presidente francese, Emmanuel Macron, lo scorso 1° settembre. Macron, muovendosi in parallelo con gli Stati Uniti, si aspetta un nuovo esecutivo in tempi brevi, capace di avviare quelle riforme, su tutte la lotta alla corruzione ma non solo, che possano modernizzare il paese — piombato ormai da 2 anni in una crisi economica e sociale senza precedenti.

Il Presidente Aoun, nel celebrare i 100 anni dello stato libanese, si è spinto oltre e ha avanzato l’ipotesi di trasformare il sistema confessionale vigente in uno stato laico, in grado di proteggere il pluralismo. Il superamento del sistema confessionale, da un lato garanzia di rappresentanza di tutte le comunità libanesi ma dall’altro schema che ha di fatto lottizzato tutta la vita politica e sociale del paese, è un elemento centrale degli assetti di equilibrio di potere in Libano. Al punto che alcuni critici ritengono che l’uscita del Presidente Aoun sia un modo per prendere tempo e far decantare la situazione.

Il fattore tempo, spesso sottovalutato, è nell’attuale fase libanese quanto mai significativo. L’avvicinarsi delle elezioni americane, per esempio: saranno a tutti gli effetti il primo banco di prova di quelle che in questi giorni potrebbero essere le soluzioni alla crisi. Non sfugge infatti che la situazione libanese e il relativo nodo Hezbollah, evocato pochi giorni fa dal Segretario di Stato, Mike Pompeo, rientrano a tutti gli effetti nella contrapposizione Stati Uniti e Israele da una parte e Iran dall’altra.

Trump, peraltro, ha recentemente affermato che, in caso di riconferma, potrebbe trovare un nuovo accordo con l’Iran in poche settimane. Al di là degli annunci, è evidente che altri quattro anni di pressione e sanzioni statunitensi potrebbero indurre l’Iran a tornare ad un nuovo negoziato ed è per questo che in un’ottica di postura regionale, il ruolo degli Hezbollah in Libano, così come di altre milizie sciite, potrebbe esser la cartina da tornasole di scelte dalla portata più ampia. Scelte che anche alla luce della storica normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, fortemente voluta dall’amministrazione Trump, a cui potrebbe seguire anche un’analoga distensione tra Israele e Bahrein, segnano un nuovo equilibrio di potenza nell’area che punta sempre più al contenimento iraniano.

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