Il riavvio del dialogo intra-libico in Marocco, a Bouznika, è una notizia che alimenta speranze. Nella città marittima della provincia di Benslimane, nella regione di Casablanca-Settat, c’è stato infatti l’incontro tra la delegazione della Camera dei rappresentanti di Tobruk e quella dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli, che si inserisce nel quadro di stabilizzazione con cui la missione delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) vuole riprendere e accelerare quel processo di stabilizzazione indicato un lustro fa proprio dal Palazzo di Vetro.
Un contatto reso possibile dalla disponibilità al dialogo del Governo di accordo nazionale libico, guidato da Fayez al Serraj, corrisposto dal presidente del parlamento eletto, Aguila Saleh, il quale ha inaugurato un nuovo processo negoziale. Nei giorni scorsi, Stephanie Williams, rappresentante speciale ad interim dell’Onu in Libia, era a Rabat per organizzare il ritorno al tavolo dei negoziati che per il momento vede impegnato Saleh, appunto, e Khaled al-Mishri, presidente appunto dell’Alto Consiglio di Stato, ovvero la Camera alta del parlamento libico con sede a Tripoli, creata in virtù degli accordi di Skhirat del dicembre 2015, sempre in Marocco. Il ritorno nel Regno maghrebino, dove cinque anni fa (appunto a Skhirat) era stato siglato il “Libyan political agreement” (l’accordo politico per la Libia), ovvero la road map per pacificare e stabilizzare il paese secondo la visione e l’egida onusiana, non è dunque solo una coincidenza ma un altro passaggio positivo di questo momento della crisi che dura da quasi un decennio.
Una fase tuttavia estremamente delicata che si basa su un’enorme e pesante incognita: la volontà del capo dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) dell’Est, Khalifa Haftar. Il punto è immediato quanto complesso: l’uomo forte della Cirenaica non sembra intenzionato a deporre le armi, e finché ottiene sostegno e rifornimenti dai Paesi sponsor, in primis gli emirati arabi uniti, è difficile che cambi posizione. Il ruolo di Abu Dhabi è pertanto cruciale. Se infatti altri sostenitori dell’Est, come la Russia e l’Egitto, hanno trovato in Saleh una soluzione politica potenziale che permetta loro di salvare impegni (ossia immagine) e interessi (dunque presenza fisica nel quadrante orientale), gli Emirati sembrano più in difficoltà dal mollare la linea militare.
È d’altronde comprensibile che dopo la defezione in Yemen dalla coalizione dei 17 Paesi a guida saudita che combattono i ribelli sciiti Houthi, gli emiratini non vogliono (e non possono) permettersi un altro risultato negativo. E d’altronde la monarchia del Golfo ha spazi maggiori in Libia, non essendo direttamente coinvolta, ma presente attraverso una salda procura politico-militare. Il rischio evidente è che le armi in mano alle milizie di Haftar (pregne di mercenari soprattutto ciadiani e sudanesi) possano trasformarsi in qualcosa di più che un semplice rafforzamento. Haftar aspetta che si accenda la miccia, magari un incidente, per far scoppiare il casus belli e ripartire con i combattimenti. Una situazione che – soprattutto nella caldissima zona di Sirte, cerniera tra Cirenaica e Tripolitania – potrebbe da un momento all’altro far ripartire le ostilità dopo il cessate il fuoco raggiunto nei mesi scorsi, polverizzando così i limitati traguardi raggiunti sino ad ora. Haftar pertanto si conferma il principale elemento di potenziale destabilizzazione di questa Libia, dove dai cittadini alle principali figure politiche, tutti chiedono il ritorno a una normalità che possa innescare quella rinascita e quel riscatto che il Paese attende da troppo tempo.