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Dalla Libia a Israele, così gli ebrei nel Mediterraneo. Parla David Meghnagi

Di Emanuele Rossi e Uberto Andreatta
economia, israele

Per David Meghnagi – docente di Psicologia Clinica, Psicologia Dinamica e Psicologia della Religione e del Pensiero Ebraico all’Università Roma Tre nonché Assessore alla Cultura dell’UCEI – l’espressione “ebreo libico” è impropria. “D’altronde” sostiene “è lo stesso Stato libico, come molte altre realtà statuali frutto della storia del colonialismo e della decolonizzazione,  a rappresentare un’unione di entità geografiche, come la Tripolitania, la Cirenaica e il Fezzan  molto eterogenee fra loro”. Le ragioni di questa interpretazione, tuttavia, possono essere meglio comprese ripercorrendo la vicenda personale di Meghnagi e quella degli stessi Ebrei di origine libica.

Nato a Tripoli nel 1949, le sue prime lingue parlate sono l’italiano e l’arabo, cui si aggiunge successivamente l’ebraico, nel frattempo già appreso in forma scritta. La sua famiglia vive sulla propria pelle la stagione dei pogrom contro la minoranza ebraica residente nel Paese a cominciare da quello, “devastante” del 1945.

L’ultimo significativo pogrom è quello del 1967, anno della guerra tra Israele e i Paesi arabi confinanti e anno in cui Meghnagi abbandona la Libia per trasferirsi in Italia: “secondo certa propaganda la fuga degli Ebrei sarebbe stata la conseguenza del conflitto arabo israeliano.  L’erosione della condizione degli Ebrei nel mondo arabo, è stata in realtà il risultato di un processo storico complesso in cui le minoranze ebraiche sono state progressivamente estromesse  dal tessuto sociale e nazionale  che si andava formando. Nella società araba tradizionale gli ebrei sono, come le minoranze cristiane sono dei dhimmi, comunità subalterne, tollerate e perseguitate, che pagano una specifica tassa per la loro protezione. Con l’ascesa del panarabismo che ha tra i suoi teorici, esponenti delle minoranze cristiane, questo elemento di matrice religiosa si è purtroppo saldato con l’arabismo, l’antisemitismo moderno e il rifiuto dell’esistenza di Israele”.

Nel 1969, quando ormai tutti gli Ebrei hanno lasciato la Libia, il colonnello Mu’ammar Gheddafi conquista il potere con un colpo di Stato volto a spodestare il filo-britannico Re Idris.  “Per Gheddafi la questione ebraica non si pose semplicemente perché non c’erano più Ebrei in Libia. Erano fuggiti due anni prima derubati dei loro beni. Tuttavia, la distruzione di Israele era un elemento centrale della retorica del regime”.

Negli anni immediatamente successivi alla fuga degli Ebrei, anche gli Italiani di Libia lasciano al Paese, in un’unità di destino tra i due gruppi che nel corso del dopoguerra avevano visto infittirsi i loro legami con la frequentazione in massa  delle scuole italiane, lo sviluppo di rapporti di amicizia e di lavoro, soprattutto fra i più giovani. Dopo il grande esodo degli anni ’48-51, gli Ebrei rimasti in Libia erano poche migliaia, di cui una buona metà circa possedeva un passaporto europeo. Arrivati in Italia dopo il giugno ’67, gli Ebrei di origine libica si sono rapidamente integrati nel tessuto sociale e urbano del Paese, in particolare a Roma dove costituiscono un nucleo significativo della più antica comunità ebraica europea”.

All’interrogativo se gli Ebrei italiani originari del Mediterraneo possano elaborare una visione comune sulle tematiche anche geopolitiche che lo riguardano, Meghnagi risponde che “appena cento anni fa, le comunità ebraiche erano un elemento costitutivo della cultura e della civiltà delle principali capitali del Mediterraneo: da Rabat a Tunisi dove c’era anche una minoranza ebraica di origine spagnola che aveva forti legami culturali con Livorno, a Tripoli e Bengasi, Alessandria d’Egitto, Damasco e Bagdad.  Sotto i colpi dell’intolleranza quel mondo è scomparso. La maggioranza degli Ebrei fuggiti dal mondo arabo hanno trovato rifugio in Israele dove la popolazione ebraica da 600.000 nel ’48, è passata a un milione e ottocento mila nel 1958. Uno sforzo titanico fatta di sradicamenti e di sofferenza non esibita, che solo la visione di un futuro possibile e la speranza hanno reso possibile. La rinascita del Mediterraneo passa attraverso i recupero di questa memoria e della sua integrazione in una cultura di pace e di convivenza fra i popoli e gli Stati che lo compongono.

A testimonianza del senso di appartenenza allo Stato che li ha accolti, o di cui erano cittadini, gli Ebrei di origine libica,  “vivono pienamente la loro appartenenza alla comunità come tale, mantenendo viva la loro specifica liturgia e le loro tradizioni.  A Milano il Rabbino capo, Rav Arbib, è nato a Tripoli. A Venezia fino a poco tempo fa tali funzioni erano svolte da Rav Bahbouth, uno dei  più autorevoli rabbini italiani, nato anche lui a Tripoli. Ben lontani dal costituire un gruppo politico portatore di istanze autonome, in contrapposizione al resto della Comunità; del resto, essi si trovano ugualmente rappresentati anche in altre liste. Le differenze, semmai, sono ravvisabili a livello di riti sinagogali e del canto. Lo stesso fenomeno è riscontrabile in Israele, dove gli Ebrei di origini libica sono oltre centomila persone”.

L’impressione, in conclusione, è che il processo di ricostruzione della Libia, qualunque forma esso assumerà e qualunque sarà il soggetto – anche esterno – che lo porterà a conclusione, non potrà prescindere da una contestuale ricostruzione del rapporto con le minoranze, come quella ebraica, laceratosi nei decenni passati e tutt’ora in attesa di una ricomposizione.

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