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Il muro italiano anti Huawei reggerà? I dubbi di Rasser (Cnas)

Dalla riunione di giovedì sera a Palazzo Chigi sul 5G è emersa una linea netta, come spiegato da Formiche.net: i fornitori cinesi devono essere tenuti fuori dalla rete core. Basterà a rassicurare il segretario di Stato americano Mike Pompeo? Il capo della diplomazia statunitense, atteso a Roma martedì, chiede all’Italia di unirsi all’iniziativa Clean Network pensata dall’amministrazione Trump per alzare un muro in Occidente contro i fornitori cinesi come Huawei e Zte. Sarà sufficiente l’ultima decisone del governo Conte? Vedremo.

Intanto, però, qualche dubbio rimane, anche nella compagine governativa. In particolare, sulla distinzione tra core ed edgeMartijn Rasser, ex analista della Cia oggi senior fellow del programma Tecnologia e sicurezza nazionale al Center for a New American Security, spiega a Formiche.net che “nelle reti 4G la linea di demarcazione coreedge era netta e permetteva il ricorso di fornitori meno affidabili sull’edge tutelando comunque la parte core”. Questo, però, non è possibile con il 5G, come hanno avvertito diversi governi, tra cui quello statunitense e quello australiano. “Le peculiarità delle reti 5G rendono difficile la distinzione”, continua Rasser. Questo alla luce del fatto “che molte delle funzionalità tipiche delle parti core verranno spinte verso quelle edge al fine di ridurre la latenza”, ossia rendere la connessione più veloce.

UN’ALLEANZA TRA DEMOCRAZIE

Rasser è autore di un rapporto che verrà pubblicato a fine ottobre (che ora sta circolando tra i governi di Asia, Europa e Nord America) intitolato Common Code: An Alliance Framework for Democratic Technology Policy e realizzato da esperti del Cnas, del tedesco Mercator Institute for China Studies e del giapponese Asia Pacific Initiative. Formiche.net ha potuto dare un’occhiata al rapporto, che indica la via per rispondere alla sfida tecnologica lanciata dalla Cina alla luce della considerazione che misure ad hoc (come i divieti Usa su Huawei e WeChat) non bastano, la competizione è strutturale: un’alleanza tra Australia, Canada, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, Italia, Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti, assieme all’Unione europea (e con possibilità di allargare anche all’India). Una proposta che assomiglia a quella britannica di D10 (dove la “d” sta per democrazia) o quella statunitense di Tech10.

“Ciò che proponiamo è un nuovo gruppo di democrazie liberali che si coordinano e collaborano sulle politiche tecnologie”, dice Rasser. “Che il governo cinese stabilisca i termini dell’economia globale non è nell’interesse di nessuno, tranne che di Pechino”, si legge nel rapporto che invita l’Occidente a provare questa nuova forma di cooperazione e avverte: lasciare la leadership alla Cina metterebbe in crisi “la sicurezza nazionale ed economica della maggior parte dei Paesi”.

LA CONDIVISIONE DI INTELLIGENCE

Washington da alcuni mesi ripete agli alleati che il ricorso a tecnologica “a rischio” metterebbe a rischio la condivisione di intelligence persino tra alleati Nato. Chiediamo a Rasser se ciò che davvero possibile. “Certe cose possono diventare problematiche”, risponde. “Per esempio gli Stati Uniti potrebbe decidere di non condividere determinate informazioni su reti realizzate con strumentazioni ritenute non affidabili”.

E SE VINCE BIDEN?

Rasser è consulente della campagna presidenziale di Joe Biden. Per ragioni professionali non vuole parlare della politica estera dell’ex vicepresidente ma ci indica negli scritti di alcuni consiglieri l’approccio che avrebbe verso Pechino una volta alla Casa Bianca. In particolare, cita Antony Blinken e Jake Sullivan, che sulla Cina sono riconosciuti spesso come “falchi”.

Una cosa, però, Rasser ce la dice: “Non penso che sarebbe affatto più morbido”, risponde quando gli chiediamo dell’approccio di Biden verso gli alleati sul tema 5G. “Una cosa che vorrei sottolineare però è che negli Stati Uniti le posizioni sulla Cina sono molto bipartisan”. Con Biden presidente, conclude, ci sarebbero “ovviamente differenze nelle politiche, nell’approccio e nella strategia verso la Cina. Ma la visione di base è pressoché la stessa tra democratici e repubblicani”.



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