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La Nato alla prova della coesione. Scrive l’ambasciatore Talò

Di Francesco M. Talò

La forza della Nato sta anche nella semplicità del suo trattato istitutivo, che si concentra sulla difesa reciproca e sull’impegno degli alleati a difendere insieme la propria libertà, a risolvere pacificamente ogni controversia tra loro e a rafforzare la cooperazione politica, economica e militare. Non vi è codificato un nemico (l’Alleanza è pro, non contro); non vi è devoluzione di sovranità (l’Alleanza agisce solo col consenso di tutti i membri); non si crea una architettura istituzionale (l’unico organo decisionale è il Consiglio del nord Atlantico). Questa estrema semplicità ha reso la Nato adattabile a radicali mutamenti geopolitici: è infatti costruita come ombrello di sicurezza attorno ai propri membri e non è ritagliata su un avversario o uno scenario predefinito.

L’adattamento dell’Alleanza è stato un processo senza soluzione di continuità anche nei decenni apparentemente statici della Guerra fredda. Esso ha richiesto volontà e coesione politica da parte dei Paesi alleati. La permanenza di tale volontà e di coesione sono impressionanti, nonostante l’allargamento dell’Alleanza dai 14 Paesi iniziali ai 30 attuali. A scandire le tappe dell’adattamento sono stati anche i “concetti strategici”, documenti volti a stabilire ciò che il Trattato non dice ovvero chi fossero gli avversari dai quali difendersi e le minacce strategiche. L’attuale concetto strategico del 2010 rimane valido, anzi profetico in contenuti come quelli relativi al cambiamento climatico e ai rischi sanitari. Molto tuttavia è cambiato: dall’approfondimento delle distanze con la Russia, alle crisi nell’area mediterranea; dal dirompente progresso tecnologico (cyber e spazio sono stati nel frattempo riconosciuti come nuovi domini operativi dell’Alleanza) all’ascesa della Cina.

Al concetto strategico si potrà forse in futuro mettere mano, ma intanto nuove sfide e un mutato contesto geopolitico mettono alla prova la coesione dell’Alleanza e la sua capacità decisionale. Dal 2016 Donald Trump ha sollevato i temi della rilevanza della Nato rispetto alle nuove sfide alla sicurezza e della corretta “ripartizione del fardello” delle spese per la difesa. Su entrambi i punti la Nato ha saputo dare risposte convincenti. Particolare risalto hanno tuttavia avuto nell’autunno scorso le parole di Emmanuel Macron sulla “morte cerebrale” della Nato, all’origine della decisione dei capi di Stato e di governo, nel dicembre 2019 a Londra, di lanciare un processo di riflessione strategica sul futuro dell’Alleanza. Sulla base di un mandato approvato dal Consiglio atlantico, il segretario generale Jens Stoltenberg ha nominato dieci esperti tra quelli proposti dai governi alleati. Tra i saggi del gruppo di riflessione è stata selezionata l’italiana Marta Dassù. Il gruppo dovrà elaborare proposte, che verranno discusse dal Consiglio atlantico, per rafforzare la coesione alleata e gli strumenti politici a disposizione per adattarsi alle nuove sfide alla nostra sicurezza. Tali proposte potrebbero essere presentate in un vertice dei capi di Stato e di governo dopo l’insediamento della prossima amministrazione americana nel 2021.

La discussione potrà far emergere sfide non più solo geopolitiche, ma ormai trasversali e di carattere globale, inclusi gli effetti moltiplicatori che i cambiamenti climatici o nuove pandemie possono comportare per la nostra sicurezza: nemici invisibili non riconducibili ad attori nazionali né non-statali (come i terroristi), minacce che richiedono resilienza, cioè capacità di tenuta e recupero delle nostre società sul fronte interno come su quello esterno rispetto a rischi esistenziali per i nostri cittadini. Epocale è poi la sfida di mantenere il vantaggio tecnologico che la Nato, principale espressione strutturata dell’occidente politico, detiene da settant’anni e che riflette la forza dell’occidente da cinque secoli. Emerge così il carattere di un’Alleanza che non può rinnegare la propria natura regionale indicata dal Trattato atlantico, ma che deve affrontare sfide globali. Di fronte a tali sfide si pone la riflessione sull’adeguamento dei metodi di lavoro dell’Alleanza, consapevoli tuttavia che le differenze tra i suoi membri non possono che essere risolte con il paziente lavoro basato sulla regola del consenso, essenziale nel Dna di qualsiasi Alleanza: tale principio è l’espressione giuridica e istituzionale della solidarietà.

L’obiettivo di una Nato più politica è alla nostra portata. Un’Alleanza delle principali democrazie occidentali rimane indispensabile. Solo essa può garantire una sicurezza credibile, adattabile e, bene ricordarlo, molto più economica di quanto lo sarebbe ogni sua alternativa: la sicurezza, soprattutto, di godere dei valori di libertà, democrazia, Stato di diritto affermati nel preambolo del Trattato atlantico. Anche in tale contesto può porsi il messaggio pubblico di #Nato2030 lanciato da Stoltenberg, che si collega al lavoro del gruppo dei saggi ora impegnato in un “tagliando” decennale dell’Alleanza. L’ultimo esercizio analogo venne effettuato infatti nel 2010 da un gruppo presieduto dall’ex segretario di Stato americano Madeleine Albright. Adesso si punta al 2030. Siamo infatti afflitti da una miope concentrazione sui problemi dell’oggi condita da eventuali recriminazioni sugli errori di ieri. Ecco quindi la scelta di puntare all’arco di una decade: la gestione delle emergenze contingenti sembra essere l’opposto del concetto dell’elaborazione di una visione strategica di lungo periodo, ma senza la seconda è difficile il successo nella prima. Guardare al futuro per camminare meglio oggi.

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