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Addio al controllo sul nucleare? La proposta Usa, il silenzio russo, l’assenza cinese

Tempi stretti per i negoziati tra Stati Uniti e Russia sul trattato New Start, ultimo baluardo di un sistema di controllo degli armamenti che affonda le radici nella Guerra fredda. A Vienna, la delegazione Usa ha presentato due settimane fa una proposta di rinnovo a breve termine, sperando di chiudere la partita prima del voto di novembre e consegnare a Donald Trump una nuova carta da spendere in campagna elettorale. Dal Cremlino non è però arrivata risposta, sebbene il nodo principale riguardi il grande assente: la Cina.

IL TRATTATO

Siglato da Barack Obama e Dmitrij Medvedev nel 2010, il trattato New Start ha sostituito i precedenti Start I, Start II e Sort, fissando a 1.550 il limite di testate nucleari per le due superpotenze e a 700 il massimo di vettori nucleari dispiegati contemporaneamente (tra velivoli, missili e sottomarini). Negli ultimi anni è stato lo strumento grazie a cui le due potenze hanno ridotto i rispettivi arsenali. Entrato in vigore il 5 febbraio del 2011, ha una durata decennale e può essere prorogato per non più di cinque anni. La scadenza è ormai imminente; i negoziati per il rinnovo sono iniziati e il loro esito resta incerto.

LE PAROLE DI PUTIN

Da ultimo, non è passato inosservato il richiamo di Vladimir Putin all’Assemblea generale dell’Onu sul controllo degli armamenti. Oltre la consueta e prevedibile promessa di impegno in tal senso (sebbene la Russia prosegua, come tutte le altre potenze, la modernizzazione del proprio arsenale), il presidente ha definito “necessaria” la risoluzione “rapida” della questione relativa al rinnovo del New Start. Secondo Putin, la questione è “prioritaria”, e da risolvere “prontamente”. Eppure, i negoziati tra Mosca e Washington sembrano fermi sulla proposta americana di inizio settembre, in attesa che i russi chiariscano o meno la disponibilità ad accettarla.

LO STATO DEI NEGOZIATI

Un paio di settimane fa, infatti, la delegazione Usa impegnata a Vienna ha presentato alla controparte una bozza di intesa, chiarendo l’obiettivo di giungere a un accordo entro il voto di novembre per l’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti. Ieri, il Washington Post ha raccontato la frustrazione montante nell’amministrazione targata Donald Trump a causa di mancati feedback dai russi. Il cuore della proposta è l’estensione del trattato per un periodo limitato (si parla di uno o due anni, come aveva previsto su queste colonne l’ambasciatore Stefano Stefanini) attraverso un accordo politico tra di due presidenti, così da avere il tempo per il passaggio a un nuovo e più completo trattato, nell’interesse convergente di entrambi i Paesi a portarci dentro anche la Cina.

LA DEADLINE DI TRUMP…

Per i negoziatori americani l’urgenza è nei tempi. A inizio settembre, lo stesso Trump ha definito il rinnovo del New Start “una cosa molto importante”, desideroso di inserire un accordo con Putin tra i vari successi ottenuti sul fronte internazionale, tra gli Accordi di Abramo, i negoziati di pace in Afghanistan e la stabilizzazione sul fronte Corea del Nord. Più di recente, intervistato dal quotidiano russo Kommersant, il capo negoziatore Usa Marshall Billingslea ha chiarito l’esigenza di giungere a un’intesa prima di novembre, tanto da lanciare agli omologhi del Cremlino un velato avvertimento: se la Russia non accetterà la proposta, quella successiva avrà “un numero di nuove condizioni” così elevato da rendere tutto più complicato.

…E LA RISPOSTA DI MOSCA

Proprio sui tempi gioca Mosca, consapevole dell’urgenza dell’amministrazione Trump. Il vice ministro degli Esteri Sergei Ryabkov, in prima fila nei negoziati di Vienna, ha chiarito su RIA Novosti che tali premesse non facilitano l’accordo: “Quando la smetteranno di lanciare ultimatum, allora potremmo iniziare a negoziare qualcosa; in caso contrario, non ci sarà accordo”. Tra le righe emerge anche l’intenzione di capire come andrà il voto americano di novembre. Quando il New Start fu siglato nel 2010, l’attuale candidato alla presidenza Joe Biden era vice presidente di Obama. Nella “2020 Democratic Party Platform” approvata dalla convention democratica ad agosto, si pone esplicitamente il rinnovo del New Start tra gli obiettivi. Nella piattaforma repubblicana del 2016 (ripresa per la corsa attuale) il trattato veniva invece definito “troppo debole”. Legittimo dunque che Mosca voglia capire con chi dovrà negoziare da novembre a febbraio. E comunque, oltre alla tempistica, sembrerebbero esserci distanze anche sul contenuto della proposta. “L’offerta degli americani – ha detto Ryabkov attraverso Kommersant – non sembra una buona intesa”.

LA PROPOSTA USA

Secondo un funzionario Usa che sta seguendo i negoziati sentito dal Washington Post, la proposta americana prevederebbe l’inserimento di ogni tipo di testata nucleare tra quelle previste dal trattato. Aggiungerebbe inoltre un sistema di monitoraggio più imponente, con un numero maggiore di ispezioni e un accesso più rapido da consentire agli ispettori dopo la richiesta di visita. Inoltre, si permetterebbe a russi e americani di osservare gli armamenti in ingresso e in uscita dagli stabilimenti dell’altro Paese per modifiche e dispiegamenti. Tutto questo sarebbe proposto in forma di “accordo politico”, da trasformare poi in vero e proprio trattato una volta che la Cina accetterà di aderirvi. Si tradurrebbe così in un impegno congiunto a portare Pechino dentro al sistema di controllo degli armamenti, obiettivo su cui servirà tuttavia la pressione dell’intera comunità internazionale.

UN SISTEMA DESTINATO A FINIRE?

In effetti, a complicare il rinnovo del New Start è stato sin dall’inizio l’invito a Pechino a sedersi al tavolo, un invito prontamente rispedito al mittente. Non è un segreto che sulla progressiva demolizione del sistema di controllo degli armamenti ci sia una convergenza di interessi tra Stati Uniti e Russia, entrambi svogliati nel prorogare impegni reciproci che li vincolano rispetto al resto del mondo e, in particolare, rispetto. Lo scorso maggio, gli Stati Uniti hanno ufficializzato l’uscita dagli accordi Open Skies che, in vigore dal 2002, autorizzano gli Stati-parte a condurre voli di osservazione disarmati sui territori degli altri Paesi che vi hanno aderito (in tutto 35). Citando diverse violazioni russe e spiegando che i “cieli aperti” non rispondono più agli interessi americani, l’amministrazione Trump ha ufficializzato la decisione statunitense di uscire in sei mesi. Dinamica simile a quella occorsa lo scorso anno sul trattato Inf, che vietava il dispiegamento a terra di armi nucleari a medio raggio, ossia quelle con una gittata tra i 500 e i 5.500 chilometri.

E LA CINA?

In entrambi i casi, le motivazioni Usa toccavano anche l’ascesa cinese in campo nucleare e missilistico. Secondo il report “Military and security developments involving the People’s republic of China” presentato dal Pentagono al Congresso a inizio settembre, la Cina possiede attualmente 200 testate nucleari e punta a raddoppiarle nel giro di dieci anni. Numeri al ribasso rispetto ad altre proiezioni (inevitabili vista la riservatezza cinese sul tema). Lo scorso anno, il “Pentagon’s 2019 China Report” redatto dalla Federation of American Scientists, ha stimato per il Dragone una disponibilità di circa 290 testate nucleari. Secondo l’autorevole istituto svedese Sipri, oggi sarebbero 320. A giugno, mentre gli Usa discutevano sull’uscita dagli accordi Open Skies, Hu Xijin, direttore di Global Times (il tabloid a diffusione mondiale del Partito) invitava il governo ad aumentare il numero di testate nucleari fino a mille.

I NUMERI DI RUSSIA E USA

Numeri comunque lontani da Usa e Russia. Sempre secondo Sipri, all’inizio del 2020 le testate nucleari in circolazione ammontavano a 13.400, circa 460 in meno rispetto all’anno precedete, in linea con una diminuzione costante degli ultimi anni. Di queste, 3.720 sono dispiegate su forze operative, di cui 1.800 in stato di “alta allerta operativa”. Il 90% resta nelle mani di Stati Uniti e Russia, altresì protagoniste della riduzione degli arsenali, rispettivamente con un totale di 5.800 testate e 6.375. Fino al 2018, la riduzione è stata dettata dagli impegni assunti tra i due con il trattato New Start. Inevitabile ora l’attenzione del mondo sui negoziati in corso. Inevitabile però anche l’attenzione sulla Cina. Oltre i numeri, il Dragone sta infatti portando avanti un cospicuo sforzo di modernizzazione e diversificazione del proprio arsenale, guidando ad esempio la corsa internazionale alla missilistica ipersonica, un campo che, secondo gli esperti, potrebbe cambiare gli equilibri.


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